Civil War – Lo scatto è sempre unico

Lo scenario dell’ultimo film di Alex Garland è quello di una immaginata guerra civile, tra il governo federale e alcuni stati separatisti, ambientata negli Stati Uniti ai giorni nostri. Con un presidente al terzo mandato (impossibile nel sistema politico americano) e autocrate. In questo inferno, due navigati fotoreporter, motivati da ragioni esistenziali differenti, si spostano con un fuoristrada insieme a un anziano giornalista decisi a raggiungere Washington per intervistare e fotografare il presidente degli Stati Uniti. A loro si unirà Jessie, una giovanissima fotografa.

Il film è la rappresentazione fedele e tecnicamente ineccepibile di una guerra civile attualissima, combattuta con tecnologia soverchiante, in cui il fotoreporter insegue i combattenti riprendendo attimi di difesa, perfidia, resa, follia e spietatezza in un conflitto nutrito dall’insensatezza politica. Ma, oltre a una lettura sociopolitica foriera di significative riflessioni sul nostro presente, esiste anche un altro punto a mio avviso interessante, ossia che i protagonisti armati di obiettivo consegnano una cronaca fotografica in bianco e nero feroce e qualitativamente perfetta perché innescata da una sfrenata e complessa ambizione che farà i conti con la follia dei combattenti, non meno sfrenata.

Per Joel fotografare è adrenalina pura e forse una scommessa violenta, per Lee matura e famosa reporter che ha iniziato giovanissima alla Magnum è una sorta di atto dovuto, un impegno fattosi ormai psicologicamente insopportabile, per la ventitreenne e inesperta Jessie è aspirare candidamente alla grandezza dei celebri fotografi di guerra (come Lee stessa) e a una professione eroica senza tuttavia rendersi minimamente conto di che cosa significhi scattare raffiche di istantanee in un bagno di sangue. Per Samuel, l’anziano giornalista, è una sfida nutrita dell’ultima saggezza che egli sente di poter trasmettere ancora ai più giovani.

Se la tragedia della guerra, ricorrente e simultanea in varie parti del nostro pianeta, è il tratto portante del film, così come lo sono le dinamiche di un conflitto civile vastissimo (e forse proprio ipotizzabile negli Stati Uniti attuali), il centro letterale e metaforico di Civil War è la fotografia. La fotografia come responso di verità, documento non effimero, testimonianza tanto più affidabile quanto più è alto il rischio di vita incorso dai fotoreporter che vivono dentro l’inimmaginabile. Testimonianza altra rispetto a quella ricevibile da qualsiasi corrispondente seduto a una scrivania design con alle spalle la vetrata su una grande metropoli illuminata.

Ecco, è un’idea forte della fotografia, un’idea oggi molto svilita, laddove il dubbio sull’autenticità delle immagini tende a teorizzarsi con forza supportato da ipotesi complottiste. Ma come dovrebbe essere ben noto, ma purtroppo non lo è, la fotografia è sempre stata falsificabile, ma il film va oltre tutto ciò. Ossia mostra la nascita e la potenza dello scatto, non la sua rielaborazione.

E proprio nell’attimo dello scatto che il regista ci spiega come coesistano tensione professionale e interiorità: c’è la tecnica e insieme ad essa intuizione, coraggio, compassione, viltà. In effetti, nel film l’estetica dello scatto, per quanto citata, si accompagna a una ragione assai più intima e profonda che è il legame tra il reporter e la vita o la morte stessa. Il film ci indica che non può esistere una “moralità” dello scatto, laddove il fotografo vive l’orrore come un privilegio che lui solo è riuscito a catturare. Grandi ambizioni, grandi prezzi. E grandi contraddizioni.  

Nel sapere rendere tutto questo, gli attori sono straordinari. Tutti. Un film immenso.

“La zona di interesse” e la foresta eterna

La zona d’interesse è la narrazione della vita quotidiana del comandante Höss e della sua famiglia nella villetta confinante con il campo di sterminio di Auschwitz che lui stesso diresse e ampliò introducendo l’impiego nelle camere a gas dell’acido cianidrico (Zyklon B) con lo scopo di velocizzare lo sterminio di massa.

Come è noto, nel film di Jonathan Glazer la violenza non è mai esplicita ma unicamente rappresentata dai suoni ininterrotti provenienti dal campo, ossia dall’altra parte del muro che separa l’orrore dalla quieta vita familiare del comandante: urla, comandi, latrati canini, sferragliare di treni, colpi di arma da fuoco e il rumore di fondo dei forni crematori.

La pellicola riesce a scalfire nel profondo, fino a scavare una desolazione interiore in un crescendo angoscioso a tratti insostenibile. O meglio, la mia sensazione è stata precisamente questa, nonostante i numerosi film visti sul tema, talora cruenti, nonché alcuni documentari storici particolarmente strazianti. Per non citare i libri, fra cui l’opera teatrale L’istruttoria di Peter Weiss che ritengo un caposaldo assoluto.

Eppure, questo film è un’esperienza altra per lo spettatore rispetto a tutto quanto (di storico o artistico) sia stato proposto sull’Olocausto.  È l’esperienza di un altro vuoto. È il vuoto dopo l’ascolto di dialoghi insulsi relativi all’arredo di casa, ai pettegolezzi, ai desideri di viaggio, agli oggetti sottratti ai prigionieri, alla reificazione dei prigionieri mentre sullo sfondo il fumo della ciminiera diventa scuro di morte e il fumo del treno a vapore segna l’arrivo del carico delle prossime vittime.

Nessun primo piano, ad eccezione di una momentanea inquadratura di profilo del gerarca nazista contro il cielo nebbioso e fumoso. Nessun approfondimento psicologico affidato ai dialoghi. Nessun atto efferato visivamente rappresentato. Le uniche tracce di sangue visibili appaiono sul fondo del lavatoio durante la sciacquatura degli stivali di ordinanza.

Gli interni della villa ricordano una vecchia casa delle bambole in cui tutto è utile, delizioso, fresco e ordinato. Un equilibrio soave fra le tinte pastello e il bianco immacolato di tovaglie, lenzuola, infissi. Un richiamo ai colori del giardino, amorevolmente curato dalla moglie del gerarca. Giardino che è al contempo luogo di relax, di nomenclatura botanica e di narrazione orgogliosa del giardinaggio stesso. La casa con il suo prato fiorito e coltivato e una piccola vasca incarna il sogno che la coppia aveva perseguito sin dalla gioventù, come si apprende da una conversazione fra i due, ossia possedere un’abitazione nel cuore della natura per vivere lontano dalla città. E fare poi piacevoli gite nel bosco a due passi da casa, dal fiume, dalle radure incantevoli.

La rappresentazione della natura rasserenante e bucolica – presente in diverse scene del film che narrano le escursioni, la pesca, il riposo nelle radure, le uscite in canoa – è d’altronde stata parte della propaganda nazista in vari connubi quali natura e salute, natura e bellezza, natura e classicità e così via. Ed è stato il paesaggio a essere stato trasformato in orgoglio identitario in linea con la celebrazione della vita contadina e della razza. Nel film le scene ambientate nei boschi, sulla riva del fiume, nelle radure mi pare possano essere più affini ad alcune opere di Ludwig Dettmann che ad altri dipinti di artisti del Terzo Reich che costruirono la propaganda attraverso opere paesaggistiche di carattere impressionista. Si pensi del resto al cinema nazista la cui produzione oltre alle opere di propaganda antisemita, incluse film come Ewiger Wald (foresta eterna) in cui la foresta è il popolo tedesco che rimane tale, cioè eterno come i suoi boschi, dalla preistoria all’era del nazionalsocialismo. Le danze di leggiadre ragazze che si tengono per mano ballando in cerchio sono le stesse presenti anche nei filmati propagandistici della Hitler-Jugend.

La promozione dell’immagine bucolica del paesaggio era parte della macchina del consenso nazista, esaltando la sacralità della natura, aspetto per altro molto presente nel Romanticismo tedesco e nella cultura germanica più antica. In realtà, con la seconda guerra mondiale, l’industria bellica prese il sopravvento sul paesaggio e su quel tipo di retorica sfruttando ampiamente il territorio.

Nel film, l’idea che la vita per essere ben vissuta necessiti di essere trascorsa in un ambiente verdeggiante (e che il giardinaggio sia frutto di una orgogliosa fatica da esibire) si inscrive in un atto di superiorità morale: saper nominare la botanica è saper distinguere, andar per boschi rende sicuri e affrancati. E soprattutto puri. La moglie del gerarca spera che le piante ricoprano presto il muro di separazione dal lager e la visuale sugli edifici del campo. La folle purezza coltivata dal nazismo rielaborava anche elementi ben presenti nella venerazione della natura. La metafora della natura nel film può essere letta come quella di un elitarismo agreste, pericoloso e squilibrato che rimuove il mondo come non necessario, meglio se inesistente.

Scirocco, un vento del sud

Vento di scirocco. L’antica storia della navigazione gli è debitrice per aver favorito le rotte commerciali nel Mediterraneo da sud verso nord. Ma lo scirocco è anche un abilissimo trasmutatore di paesaggi, cieli e stati d’animo. Persiste spesso per giorni, scarica umidità, caldo soffocante e sabbia dal Nord Africa o dal Medio Oriente. Modifica colori e cancella nitidezza.

Negli anni Settanta quando il clima qui a Torino era ancora suddiviso in quattro stagioni ben distinte e si atteneva alle latitudini, mio padre, di ritorno dalle sue varie trasferte al sud, ci raccontava lo scirocco. E finalmente, quando ci portò in Sicilia, conobbi da bambina questo vento (nella sua massima espressione tipica della regione, ossia carico di sabbia) prima che finisse per diventare una sorta di fantasia mitologica. In paese gli isolani dicevano, con pungente disappunto, che lo scirocco durava sempre almeno tre giorni, soffiava pulviscoli di deserto in ogni dove e rendeva le persone irascibili e incattivite.

L’aria si definiva nella pausa delle folate in un’immobilità a me sconosciuta, grondante di afa e attesa. Sembrava non accadesse mai nulla. Allora, prendevo la bicicletta pieghevole che i miei avevano cacciato sul portapacchi prima di un viaggio di mille e settecento chilometri e me ne andavo a ridosso del faro per un faccia a faccia con il mare poco dopo lo scirocco, in una spiaggia di pietra pomice che iniziava dove terminava un campo secco cosparso qua e là di fiori spinosi. Era estraniante per me quel luogo, con quella luce astrusa ocra-verdastra, mai vista. Già immaginavo di raccontarlo ai miei amici una volta tornata a casa, loro non erano mai stati al sud ed ero sicura che neppure immaginassero quanto potesse essere fantastico tutto ciò.

Come tutte le persone che amano visceralmente il mare e nuotano parecchio, posso affermare che lo scirocco, quando imperversa forte, rapina l’acqua di tutta la sua limpidezza, invita a bagnarsi ma poi scoraggia il desidero di nuotare, sbiadisce i fondali e trascina l’umore verso una stagione d’animo indefinita.

Però è proprio in questa indefinitezza che mi pare si compia una sorta di salutare ἐποχή (epoché) per la mente, ossia quella che i filosofi greci scettici indicavano come una sospensione del giudizio. Il colore incerto che lo scirocco conferisce a terra e cielo è un tenue ocra in alone lattiginoso che soltanto qualche altro vento spazzerà. Ma nel frattempo si vive dentro una sorta di interruzione, in un tedio imprevisto ma quasi saggio perché allena alla pazienza. Il paesaggio e il mare trasfigurati in un’epifania di colori sbiaditi e alterati possono, in un viaggio nel sud, essere la scenografia di stati d’animo sorprendentemente meditativi.

Il sol dell’avvenire, senza iperboli

“Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti è sicuramente un bel film, che fin dal titolo segnala quello che sarà l’incessante comporsi e rincorrersi di citazioni. È un’opera molto intelligente e libera che innesca il gioco speculativo del “come sarebbe andata se” nella storia politica italiana. Oltre a ricordarci come molte coscienze siano tenute in ostaggio, inconsapevolmente, dalla faziosità ideologica. Da qui al considerarlo un film eccezionale, come ho letto e ascoltato da molte parti, ho un’opinione diversa.

Moretti è un regista a me caro sin dall’adolescenza. Ispido e irriverente, con la sua voluta recitazione spigolosa e quasi non recitazione ben inquadrava le contraddizioni non solo politiche ma morali di quegli anni e dei successivi. Era per me, soprattutto allora, un regista di rottura, e ho visto quasi tutti i suoi film. Uno dei più significativi, che riesce ancora a commuovermi e supporta la mia indole piena di dubbi è “La messa è finita”. Ricordo invece l’impatto estraniante di “Sogni d’oro” che vidi a sedici anni. Uscii, uscimmo dal cinema noi amici, alcuni dei quali poi amici per tutta la vita, un po’ confusi anche se molto divertiti. Non era un film semplice.

Di formidabile “Il sol dell’avvenire” ha il monologo sull’uso e abuso della violenza nel cinema che cita “Breve film sull’uccidere” di Kieślowski. E qui ci siamo. E che dire del protagonista che suggerisce dall’automobile a una giovane le parole da dire al suo amato, mentre “La canzone dell’amore perduto” di De André si percepisce qui più struggente di sempre? Detto tutto ciò, non lo definirei un film straordinario. C’è tutto Moretti, e senza dubbio una sintesi mirabile del suo cinema e un’adorabile ironia, ma c’è anche una narrazione di alcuni aspetti (per esempio il rapporto tra Giovanni e Paola) rallentata e convenzionale, vista e rivista nell’ultimo cinema italiano. Il film nel film mi è piaciuto molto, coi suoi trapezisti e l’atmosfera circense che è tante cose. Quindi, risparmio le iperboli che a volte paiono quasi necessariamente dovute ai registi amati che hanno fatto i film della nostra vita e dentro la nostra vita, e consiglio “Il sol dell’avvenire”.

Atterrata come un UFO

David La Chapelle Gas station

(Photo Credits: “Gas Station”, David LaChapelle 2013)

CROPVIOLAROSSO20190406_114232Si parla tantissimo, a volte forse troppo, di creatività, divinando le mille cause che scatenano il suo turbinio di ebbrezza espressiva. E si strutturano e divulgano metodi per potenziarla. Non ho mai creduto che la creatività si possa acquisire con un metodo. Penso invece, questo sì, sia imprescindibile studiare la tecnica e cercare di valorizzarla al massimo livello. Spesso chi possiede qualche forte attitudine artistica, chi è autore di qualche cosa (oggetti, scritti, musiche, sculture, fotografie, dipinti, film) sa bene che la creatività non si estorce.

Se si escludono le opere collettive, l’ideazione è un atto soggettivo che si muove su acque mosse o calme del proprio vissuto, ma sempre con uno sguardo che punta a individuare un significato e a farlo emergere da una melma indefinita. Creare è individuare. La creatività non è tecnica. La creatività non è neppure soltanto un atto ingenuo, immediato, spontaneo, naïve. È un processo anche sofferto, invadente, caotico e spesso, certo, totalmente imponderabile. Questo penso, e parlo di me, della mia esperienza. Scrivo perché ho la passione di scrivere.

La mia creatività non è forzata, strattonata da urgenze professionali, semplicemente perché non è questo il mio lavoro, non vivo di questo, ma ammiro – lo dico senza ironia o sarcasmo – chi, artista di professione, riesce ad avere una costante creatività e a produrre svariati ottimi lavori. Avere questa costanza creativa sarebbe fantastico.

La stesura del mio prossimo romanzo è in una fase piuttosto intensa, in effetti scrivo parecchio. In snervante bilico è ancora la trama. Le ricerche per gli approfondimenti storici e le ambientazioni le trovo sempre appassionanti, esattamente come era successo per “La libreria dei naufraghi”. Confesso che ho proprio voglia di arrivare all’ultimo paragrafo e chiudere per dedicarmi alla lunga fase di editing. Le correzioni e le revisioni sono infatti – come ben sa chi crea guardando con venerazione e un tantino di ossessività a un buon livello di tecnica  –  qualcosa di sovrastante che innesca frustrazione e incontentabilità assolutamente patologiche 🙂 In effetti proprio da questa incontentabilità nasce la necessità di un’ulteriore stesura (magari anche solo di alcuni capitoli) e la messa in discussione non solo di espressioni o dialoghi, che niente… non ti convinceranno mai, ma anche della esistenza o dell’uscita di scena di alcuni personaggi (e non solo secondari). Poi la ricerca delle contraddizioni e il controllo della verosimiglianza di alcuni dettagli.

Sto parlando di aspetti scivolosi. Ad esempio un dialogo che avviene, mettiamo, un certo pomeriggio del giugno 1970 e poi venti capitoli oltre lo stesso viene ripreso ma è una mattina dell’ottobre del 1970, e simili. Come si dice, diavoli in tutti i dettagli. Ma anche clown. Perché spesso si notano anche errori esilaranti rileggendo le bozze. Gli errori della creatività che la tecnica narrativa non può perdonare e i lettori attenti neppure.

Ci sono momenti straordinari, in cui scrivi e arriva quell’idea incredibile, luminosa, atterrata come un UFO, idea che il tuo inconscio conosceva molto bene, e ben prima di te. Un’idea. Come la stazione di benzina nella foresta, di David LaChapelle.

Cliccare un’unica idea di mondo

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 È ben chiaro a chiunque non abbia mai smesso di leggere quotidiani che la homepage di una testata giornalistica non è più un giornale. Ma un confezionamento di un’unica idea di mondo. A prescindere – e qui è il paradosso – dall’orientamento politico della testata.

Emerge cioè un’idea di mondo disperata, necessariamente conflittuale, faziosamente insana. Questa dimensione tragica (che senz’altro ampiamente ci rappresenta ma non nella totalità) suole essere spesso affiancata da una compensazione consolatoria piuttosto naïf. Ecco che le prime pagine si “completano” allora di “colmi”. Ossia notizie più o meno eclatanti che sfruttano un romanticismo ecologista, spesso  animalista, molto edulcorato e di sensazione. L’acqua calda è già stata scoperta, d’accordo: cosa non si fa per acquisire click.

Tutto questo,  però, è assolutamente rappresentativo di ciò che si è diventati, si sta diventando. La necessità del ragionamento, quasi considerata accessoria, è trascinata in una drammatizzazione compulsiva a discapito della lucidità. Il mondo, la storia, la società da percepirsi solo emotivamente piuttosto che intellettivamente. Un rischio mai abbastanza calcolato dai lettori e molto ben calcolato dall’economia, e quindi dai giornali che ormai vivono di pubblicità e inserti. Qualcosa di pazzesco – il mondo, la storia, la società percepiti solo emotivamente.

Giorni fa, in una stessa prima pagina:  Michelle Obama esprimeva la sua depressione per la situazione mondiale, poco oltre un articolo citava i nuovi riti iniziatici delle feste di laurea che prevedono botte da orbi, seguiva la cronaca nera più efferata, e la dolorosa e complessa realtà del Libano era ridotta a un video dell’esplosione al porto cliccabile all’infinito, dove la tragicità è puro effetto cinematografico. Insieme a tutto questo, la politica che strumentalizza il virus che strumentalizza la scuola e quell’unione onnipresente, sospetta, di avverbio di modo e participio (l’espressione “clinicamente morto”) riferita all’agente patogeno che si è volatilizzata. A tutto ciò si aggiunga la cronaca a puntate di madri fragili e incredibilmente sole e vittime, insieme ai loro figli, di una cultura che respinge la psichiatria e nega che il cervello sia un organo come gli altri. Un neurotrasmettitore da regolare, proprio come un’antenna niente di più. E non meno decisivi, ascolto, empatia e affetto, responsabilità amicali e parentali, tuttavia totalmente assenti.

Pare, però, si viva e ci si nutra continuamente e solo di prime pagine web, assorbendo titoli e foto in modo compulsivo, senza leggere gli articoli. La ricerca della notizia non è che la ricerca della novità continua, della risposta emotiva, che rimuove così la necessità di rischiare, mettersi in gioco, pensare, elaborare. Ecco che leggere la prima pagina in questo modo compulsivo permette facilmente di avere qualcosa di cui scandalizzarsi e – in base all’attendibilità o meno delle testate – di sbandierare qualche fake news in cui credere come il tao fai da te di un adolescente tormentato, di schierarsi su un fronte (negandosi, proprio come un adolescente, la possibilità di ricredersi) perché sembra più necessario avere nemici da odiare che desiderare di comprendere di più e con onestà. E qui penso a due sentimenti sociali, per i quali la lingua tedesca ha due parole precise: Weltschmerz e Schadenfreude. La prima indica il dolore che l’individuo prova nei confronti della perfidia del mondo. Una sorta di tristezza profonda per ciò che accade intorno a lui, con un senso di assoluta impotenza a modificare le situazioni. La seconda indica la contentezza che l’individuo prova per il dolore capitato ad altri. Direi che la prima pagina web potenzia entrambi questi stati d’animo (per altro storicamente accertati e analizzati), come un magnifico dopante, nel flusso incessante e annoiato di ricerca della novità-news e debolezza nella costruttività (sia essa collettiva, ma anche individuale).

Al netto di tutte queste considerazioni, l’immersione in una cronaca squisitamente emozionale del mondo, e sempre e soltanto tragica (mentre la volontà costruttiva viene spesso trattata con cortigianeria fino a farne una “agiografia” laica) segna il frantumarsi dell’onestà intellettuale, un’ambizione preziosissima che dovrebbe interessare ogni essere umano, il quale non può per sua natura raggiungere l’imparzialità.

L’orso non lo sa

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Parco di Yosemite, settembre 2009

Parco di Yosemite, California, settembre 2009. La prima volta in quello stato, la quarta negli Sati Uniti. Viaggio itinerante, con l’idea di includere alcuni luoghi specifici, e poi di giorno in giorno prenotazioni telefoniche per i pernottamenti successivi in motel e case. Almeno nei viaggi itineranti, per quanto possibile, le tappe e gli orari da rispettare non fanno per me. Abbiamo sempre viaggiato così.

Dopo un paio di giorni decidiamo di visitare un’area  più isolata della super turistica valle, ricca di straordinarie bellezze (soprattutto per noi europei) ma forse un po’ troppo organizzata. Prenotiamo un bed and breakfast dall’altra parte del parco (che significa alcune centinaia di chilometri). Salutiamo il motel e i simpatici procioni che stazionano davanti alla nostra porta e ci mettiamo in viaggio. Bellissima e impervia la strada (anche se dopo alcune strade montane della Corsica e un paio del Marocco, posso dire che l’asfalto ci cullava dolcemente). In quel momento sono io al volante e lui segue la cartina (di carta). Un ranger ci ferma per dirci che per via di un grosso incendio la strada è bloccata. Gli indico sulla cartina il posto che vogliamo raggiungere in tre ore e lui tra il serafico e il disincantato risponde “disdica la stanza, non si passerà da lì per un po’, volendo potete prendere l’altra strada ma allungate parecchio e ci vorranno sette, otto ore. Potete prendere sempre questa strada qui, ma nell’altra direzione e andare su, è molto bello, li qualcosa trovate”.  Un po’ generico, ma invitante. Torniamo indietro e puntiamo a una zona molto centrale del parco, decisamente remotissima. Poi un cartello “White Wolfe Campground” nel cuore di una foresta. I cartelli gialli continui, indicano che la zona è molto frequentata dagli orsi.

Campeggio, all’epoca, super spartano (oggi non saprei). Ci dicono che se vogliamo hanno qualche tenda, tipo quelle da campo, montate con la stufa a legna dentro. Sono il loro equivalente dei bungalow. Le regole sono rigidissime. Dobbiamo firmare una liberatoria per gli orsi, dobbiamo (come ovunque nei parchi), chiudere tutto ciò che sprigiona odore nel cassonetto di ferro con gancio di chiusura a prova di orso laureato, multe stellari per chi lascia fuori anche un tubetto, i generatori per l’elettricità si spengono alle 22, portatevi la pila dietro, quello è il cesso, cena fino alle 21 tipo minestre e carne nella casetta di legno di Zio Zeb, reception chiusa riapertura alle 6, e tanti saluti. Come dev’essere.  Ruvida foresta, turismo da depliant inesistente. Ceniamo nella casetta di Zio Zeb insieme a un paio di persone conosciute lì, i ragazzi dello staff sono gentili, la roba è buona e quando usciamo il cielo pulsa di migliaia di stelle. Spuntano tra i varchi dei rami delle alte conifere. I generatori si spengono, i fiochi lampioni muoiono definitivamente e fa abbastanza freddo. Ricorderò per tutta la vita l’odore della stufa dentro il bosco, nel silenzio maestoso della notte. Usciamo dalla tenda per andare in bagno che è a circa cinquanta metri. Scopriamo che anche le porte dei cessi sono assicurate da un gancio di sicurezza. Ci aspettiamo fuori prima di rientrare in tenda. Lui cammina davanti a me con la torcia al minimo puntando il fascio verso terra. Improvvisamente a pochi passi da noi, alla nostra destra, un ruglio di tutto rispetto. Un orso ci avverte della sua presenza. Lo sentiamo muoversi, a pochi metri, ma ignoriamo – diciamo pure pietrificati – in quale direzione. Sappiamo in generale che è buona cosa è evitare di puntare la torcia su musi vari. Mio marito nel viaggio e nella vita è coraggioso quanto me, in questo ci assomigliamo, e mi dice cerchiamo di andare avanti, non corriamo sennò potremmo essere fottuti.

Sono i cinquanta metri più lunghi della mia vita. La sensazione di essere rientrati al sicuro in tenda non riesce a tranquillizzarci. Sentiamo il vagolare di piccoli ospiti che strusciano contro il bordo, piccoli animaletti del bosco, ma nessuno ci toglie dalla testa che possa essere ancora lui. Nel settore delle tende individuali, in lontananza, gruppi di ragazzi ridono e scherzano. A un certo punto fanno un sacco di rumore con le pentole e intimano con vari fuck qualcosa a un orso di andarsene. Fatico molto ad addormentarmi. Quando finalmente crollo anche io in un sonno profondo come la notte, vengo svegliata brutalmente da un tonfo metallico, tremendo e ostinato. Un orso sta saltando sopra a uno dei cassonetti di ferro con il lucchetto a prova di orso laureato. Da una tenda stanziale come la nostre, a venti metri da noi, un tipo si incazza, urla e si mette a fare rumore.

Riprendo sonno, e poi subito la luce del mattino ci sveglia dolcemente. Apriamo la tenda e c’è profumo di caffè dalle tende vicine. Noi non avendo alcuna stoviglia portata dall’antica Europa, ci prepariamo e adiamo a fare colazione alla casetta di Zio Zeb. Sono più o meno le 6.30 e mi porto dietro la macchina fotografica. Andiamo nel punto in cui l’abbiamo sentito e troviamo la sua orma. Una bella fettona di zampa. A colazione, chiedo a uno dei ragazzi che ci porta le meravigliose pancake con acero a golate se secondo lui abbiamo rischiato. “No, secondo me, no. Io quando vengo a lavorare qui, li incontro sempre nei sentieri di giorno, e allora faccio un sacco di rumore e loro se ne vanno”, dice scrollando le spalle. “Non penso che volesse aggredirvi, voleva solo dirvi: sappiate che siete a casa mia. Avete fatto comunque bene a muovervi come avete fatto, in ogni caso non bisogna mai perdere il controllo con questi animali, di solito non sono aggressivi, sempre che non abbiano i cuccioli,  certo di notte è più complicato…”.  Aggiunge scrollando le spalle, sorride e se ne va.

Tra quel “di solito”, “non penso”  “sempre che non” e la scrollata di spalle passa il concetto di imprevedibilità, che noi umani sembriamo non tenere in considerazione in un sistema vile, molto vile, che ha fatto del binomio paura-sicurezza la spada di Damocle  e che io spesso faccio fatica ad accettare. Per questo devo stare nella natura, appena posso.

Due anni fa siamo tornati in California, Oregon, Utah, Arizona. Viaggiando sempre nello stesso modo. Abbiamo fatto tante escursioni, anche in zone piene di orsi, piene di branchi di elk, ma non avevo alcun timore. Perché due immagini si erano scolpite a mia difesa, quella scrollata di spalle, e il volto di una donna, penso almeno settantenne, che avevo conosciuto, sempre in quel viaggio successivamente all’episodio dell’orso. Era con la nipotina vicino a un laghetto e stava guardando il panorama. Ci chiede da dove veniamo, gli raccontiamo degli orsi, lei mi fa  vedere due piccoli pentolini legati  allo zaino, li libera dall’elastico e li sbatte l’uno contro l’altro: “Me li porto sempre dietro nei sentieri, basta fare così” e si fa una risata.

Torno al presente, al video circolato sul web un paio di settimane fa. Luogo: monti del Trentino. Alle spalle di un bambino in gita con la famiglia sopraggiunge un orso di mole considerevole. Il padre del bambino cammina a ritroso e fornisce indicazioni al figlio e riprende per un paio di minuti con il cellulare tutta la scena. Una minoranza di opinione sostiene che siano stati i genitori a organizzare l’avvicinamento dell’orso per regalare l’incontro al bambino appassionato di plantigradi. Questo non lo so.

Risparmio parole sull’ossessione da ripresa video, ormai endemica e giustificata per raccogliere ogni singola emozione; risparmio ogni sillaba sulla nuova concezione del ricordare che si va perpetrando perché esistono analisi meravigliose sul narcisismo di questa nostra epoca attuale.  Le statistiche, come molti di noi sanno, sono incoraggianti sulle scarse possibilità che un orso attacchi e sbrani. Qualche volta però succede di essere vittima di semplici aggressioni, o di diventare una polpetta fra le fauci della fiera. Come qualche anno fa in India, quando un ragazzo del posto sceso dall’auto decide di farsi un selfie davanti a un orso ferito e questo lo sbrana. Il tutto ripreso in diretta dai telefonini delle persone che assistevano alla scena urlando.

Credo che occorra tenere presente il pericolo emotivamente molto alto di sbagliare l’approccio. Perché se la paura è la nemica potentissima del nostro secolo, lo è anche la disinvoltura.  E che cosa più di un telefonino fa della disinvoltura la protagonista indiscussa? I grandi animali sono archetipi ancestrali della paura. Sono immaginari non addomesticabili, ed in parte è giusto che rimangano tali, per ridimensionare la fastidiosa visione eccessivamente romantica e naif della realtà animale di cui i social web sono portatori molto insani e inesatti. Solo l’esperienza diretta e la conoscenza, la consapevolezza del giusto atteggiamento possono garantire un rapporto differente tra natura ed esseri umani.

Non mi interessa accusare con scrittura di fiele coloro che hanno svolto le riprese del ragazzo. È facile, scontato.

Sconcertante è il fatto che fare una ripresa con telefonino sia considerato addirittura imprescindibile. Ma l’orso non lo sa. Questo è il punto.  L’orso non lo sa.

L’immaginario non addomesticabile, quando da film della mente diventa reale non crea necessariamente nuove fobie, ma ci rende consapevoli che l’uomo è sì il super perfido predatore del pianeta, ma nella natura selvaggia è per fortuna, spesso e in molti luoghi ancora solo un ospite. Un ospite ridicolo, se una simile esperienza deve essere riprodotta da una telecamera. Telecamera di sorveglianza del proprio coraggio.  Ma l’orso non lo sa.

Le indebite proporzioni

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Fotografia di Massimo Minioto

Nulla sarà più come prima: la frase assertiva che in questi giorni abbiamo letto e ascoltato è anche il presentimento che si è fatto spazio dentro di noi, trasformata nei social in una sorta di memento non certo in modica quantità.

Nulla sarà più come prima, dopo Covid-19, perché sarà necessario ripensare la produzione, l’economia, i consumi, l’uso della terra, l’istruzione, la cultura, la distribuzione, la governance, la globalizzazione. È impossibile adesso fare previsioni, prima dobbiamo arginare la catastrofe, dicono e scrivono inoltre.

Le strade sono pattugliate, anche dall’esercito, contro assembramenti, sport di squadra nei viali, eccetera. Tutto ciò è angoscioso. L’immagine in sé, quella di un’intera popolazione chiusa in casa e i militari in strada rimanda a situazioni storiche ben precise e anche attualissime in tanti luoghi del pianeta, vicini e remoti. Le immagini tendono a sovrapporsi per natura, e credo che sia necessario mantenere una lucida distinzione tra eventi diversi.

La reazione di massa di fronte a una primavera anticipata e all’arrivo incipiente del Covid-19 è quella di una folla facilona, incurante, che prendeva il sole e riempiva le piste da sci e i lungomare e i lungofiume. Che aperitizzava senza pietà.

Ego quindi, si dimostra del tutto disinteressato a Pòlis. E questa non è certo una novità. Ma in questo caso l’effetto di una rimozione è molto evidente. Folla che rimuove a livello profondo il demone della tragedia sanitaria. Una negazione collettiva lampante. Siamo un paese per certi versi impunibile, impunito.

A ciò si aggiunge, senza alcun dubbio, la sfiducia generale nelle istituzioni e soprattutto nella scienza, attaccata in questi ultimi anni da haters di ogni ordine e grado, abilissimi venditori di consolazioni che conoscono esattamente ciò che la gente ama sentirsi dire, evitandole ogni complessità. È molto più interessante, e in un certo senso premiante, credere a un macchinoso e ben ingegnato complotto piuttosto che farsi una ragione della natura matrigna. E la scienza medica, d’altra parte, è purtroppo spesso carente di efficaci comunicatori in grado di spiegare la complessità, più interessati forse a mantenere elevato il prestigio mediatico.  Il populismo d’opinione ha fatto il resto, cioè gran parte del disastro intellettuale.

Detto questo, il focus è sempre e solo uno: saper accettare una riduzione della libertà per una causa molto più grande, solidale e ormai planetaria. Ma, benché sia stato spiegato, e benché motti ottimistici abbiano incoraggiato l’esercizio domestico della creatività (concertini sui balconi) si sono affollate le aree verdi e non solo, in modo inquietante e spropositato. Come un’improvvisa, fortissima e inarrestabile dipendenza, ma senza nascondersi, così alla luce del sole.

Ma al contempo si è intensificata la narrazione video di giovani degenti che raccontano ciò che molti non volevano leggere o ascoltare. Cioè che se le probabilità di morire di Covid-19 sono nel complesso ancora relativamente basse, sono cresciute esponenzialmente le possibilità di ammalarsi  e trascorrere anche settimane in ospedale, con grave insufficienza respiratoria, attaccati all’ossigenoterapia o spediti direttamente nei nuovi lazzaretti della terapia intensiva. Si è accentuata anche la narrazione dei medici ormai quasi insonni che dicono che l’età si abbassa. Si è intensificata per così dire la “presa diretta”, il “live” e come per Ground Zero, c’è un’iconografia dei combattenti e custodi che in quel caso erano i pompieri e qui sono gli infermieri. Soltanto questa narrazione e i divieti stanno inducendo, giocoforza, a comportamenti diversi. Non altro.

Anche se va detto che nessun paese può essere preparato a un’emergenza di questo tenore, stiamo pagando drammaticamente gli irresponsabili e scellerati tagli finanziari alla Sanità a favore del sistema privato, i blocchi all’avvio delle professioni sanitarie, le carenze di comunicazione organizzativa, la burocrazia.

Abbiamo un debito morale assoluto verso tutti coloro che potrebbero aver bisogno di strutture  ospedaliere, qualunque patologia essi debbano curare. La rimozione collettiva del fatto che infettandosi e infettando si bloccano gli ospedali ha riguardato principalmente il proprio Ego, vale a dire: tutti si possono ammalare tranne me.

Le persone più fortunate (ossia, ad esempio: non afflitte da gravi patologie psichiatriche, non in corso di difficile separazione, non homeless, non anziani soli al mondo) non possono rimuovere il fatto che la proporzione non esiste. Non può esistere la proporzione fra uccidere la noia con una giornata di sole all’aperto e vivere il dramma nei nuovi lazzaretti. Se questa proporzione non si riesce a cogliere e occorre pattugliare le strade, e condividere video di malati, credo che non possiamo ipotizzare nessun “Nulla sarà come prima”, perché prima di qualsiasi cosa dovrebbe farsi forte e libera la consapevolezza del presente.

Sarà una guerra lunga e piena di feriti, se la prima, quella facile che si combatte stando semplicemente chiusi in casa sul divano a scegliere i propri interessi preferiti da uno scaffale, da un monitor o da un video non funzionerà.

Qualcosa di preciso

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Non poche ma tante persone acculturate e sensibili alla storia, mostrano oggi quasi un fastidio nei riguardi della Giornata della Memoria. La motivazione più o meno antagonista e spesso esibita a volte con una certa superiorità morale è sempre la stessa, ossia che si dia tanta eco all’Olocausto e si trascuri il fatto che l’efferatezza e il sadismo della guerra e della prigionia sociale di cui sono vittima popoli e minoranze è più che mai attuale e meriterebbe altrettanta visibilità. Mi sono spesso sentita a disagio con questo atteggiamento, soprattutto nella sua esternazione in vignette social dove in modo semplicistico si raffronta il tutto con situazioni a mio avviso non comparabili, benché siano situazioni gravissime e che abbiamo molto a cuore, per le quali sentiamo tutto il dolore e la rabbia per l’ignavia e la strumentalizzazione con la quale vengono trattate, politicamente e socialmente.

L’Olocausto, tuttavia, è stata un’unicità nella storia della pratica della morte, per i suoi legami con la produzione industriale, per la creazione di una spaventosa macchina colpevolizzante con un’esattezza senza precedenti e perché è avvenuto nella “civilissima” Europa, dove l’intoccabile paradigma della ragione illuminata ha mostrato tutte le sue debolezze e contraddizioni. Dicono però gli infastiditi che non si possa trattare come un dolore a sé nella storia. Ma credo che questo non sia ovviamente in discussione, considerando che la prevaricazione e la tragicità fa parte della natura umana.

Ognuno di noi, giunto alla mezza età, ha ricordi familiari legati alla seconda guerra mondiale (racconti orali, foto, lettere, cartoline) e molti di noi hanno potuto ascoltare ancora voci dirette di familiari e loro amici. Oltre all’istruzione, ognuno di noi attraverso la lettura, il cinema, le istituzioni museali ha poi assorbito altre conoscenze sui fatti e sulle rappresentazioni di quei fatti. Ognuno ha potuto coltivare maggiore empatia, attraverso l’immedesimazione nella rappresentazione. Tra tanti molteplici racconti visivi o testuali, considero L’Istruttoria di Peter Weiss un libro straordinario che mi ha fatto sprofondare nella sofferenza dell’Olocausto e nella sua assoluta peculiarità storica come poche altre opere. È davvero una lettura, come scritto nella prefazione, per molti versi “insostenibile”, perché è insostenibile leggere questo dolore e la modalità con cui questo dolore viene perpetrato.

Se dovessi consigliare a un giovane un libro nella Giornata della Memoria, consiglierei proprio questo. I binari di un treno non riuscirà più a vederli nello stesso modo. Capirà meglio l’importanza  di un processo e il peso della descrizione precisa di un fatto, di un luogo. Leggendo le pagine del libro vivrà dentro Auschwitz per qualche ora, vedrà e ascolterà voci e luoghi. E farà profondamente suo tutto il dolore del mondo, forse di qualunque tempo.

 

 

Joker. Il mondo non sa di esistere.

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Domenica  ho visto Joker. Faccio quindi parte del pubblico che ha partecipato alla visione del film, incrementando gli stratosferici incassi di un’opera accusata di istigare compulsiva emulazione violenta nei giovani problematici.  Un Joaquin Phoenix immenso – perché altri aggettivi non ne trovo –  per un’interpretazione, virtuosistica quanto si vuole ma che (Di Caprio escluso) nella mia esperienza di spettatrice non vedevo da decenni. Troppo poco per consigliare questo film, certamente. La stampa, prezzolata e non, ha subito creato una dicotomia: o lo ami o lo odi questo film, nessuna via di mezzo. Che è poi anche un’ottima trovata commerciale per indurre gli spettatori a riempire le sale e farli sentire giudicanti netti, “pro” o “contro”, perché oggi la cosa più importante del mondo è avere ragione, non certo discutere. Purtroppo.

La violenza di questo film non sta in un paio di scene di botte e in una di omicidio (molto efferata). La violenza di questo film è prima di tutto la violenza di una società produttrice di disadattati che paradossalmente rinnega il disagio psicologico salvo poi adularlo quando è il momento di fare audience. Joker è sostanzialmente un film sui danni del non ascolto, sulla mancanza della valorizzazione degli individui, sulla solitudine allucinatoria, sulla negazione della dinamica relazionale. E non è, a mio avviso, un film da escamotage fumettistico (nonostante questa mi pare sia la considerazione più diffusa, credo molto impropriamente, per via di Batman).  È piuttosto un film letterario, costruito anche su un piano onirico che resta però fortemente icastico e realistico (quindi grandioso cinema). Brani musicali popolari e struggenti accompagnano catarsi e disaffezioni al sistema, e corridoi sono riempiti da un clown nelle cui movenze sta l’intera follia del mondo, come la storia cinematografica ci ha insegnato sin da Chaplin e non solo.

Gotham City è una sorta di immensa New York, che mi ha ricordato certamente New York, ma soprattutto la disperazione che ho visto per le strade di Seattle e di cui ho scritto qualche tempo fa. È anche un film sul delirante possesso delle armi negli Stati Uniti, sulla possibilità di diventare assassini per apparenti futili motivi, sulla coazione  – incurabile e straziante – a ripetere violenza, sulle politiche di taglio ai fondi per la salute sociale.

Questo film mi ha emozionato moltissimo, e anche commosso per come riesce a trasmettere empatia nella rappresentazione del disagio psicologico, della malattia mentale. Così, almeno all’inizio, si soffre con Joker, con il suo disperato bisogno di amore e inclusione, si prova il sentimento di una persona allucinata che si costruisce una vivida idealizzazione, una vita di trasposizioni, e che dubita della sua stessa esistenza. Penso che questo film sia un film su un parricidio sociale e anche sulla tragedia del paternalismo interessato che ha sfruttato gli individui in ogni epoca storica, sull’insano possesso di armi  che rende chiunque un potenziale criminale, sulla ricerca disperata delle proprie radici familiari, dei propri affetti a volte mai esistiti e sulla nascita del populismo violento. La rivendicazione collettiva della maschera e l’emulazione dell’azione violenta sono definitivi nella scena finale con il sottofondo della musica dei Cream. Emulazione che è sempre esistita nella storia umana là dove c’era un vuoto esistenziale, culturale, istituzionale, affettivo, che le comunità o le realtà familiari hanno negato o rimosso per convenienza, omertà o ignoranza. Poi esiste la follia nel DNA, certo.

Abbiamo bisogno di film con visioni migliori, che diano voce alla memoria e non ai selfie o alle emulazioni, che rivalutino l’importanza di comportamenti e atteggiamenti empatici, perché il Vuoto  non si vince mai da soli. Abbiamo però forse anche bisogno di film come Joker. Di Joker e delle sue folli e mostruose pedate rosse danzanti in un corridoio bianco, proprio per ricordarci che abbiamo un disperato bisogno di consapevolezza e inclusione in un mondo che sembra ogni giorno più sanguinario, più delirante: un mondo che come Joker non sa forse persino di esistere, se nessuno si accorge di lui.