Una dacia a Pecetto e un iglù in Sicilia

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Seattle, 2017 (Foto di Silvia Dacomo)

Tutto era cominciato nella prima metà degli anni Settanta. Mio padre affrontava la crisi di mezza età con fantasticherie. In linea con il suo carattere ironico, curioso, e per molti versi  stravagante. I miei genitori non sono mai stati ricchi, ed entrambi  – friulana lei, piemontese lui –  provenivano da famiglie tutt’altro che danarose, men che meno possidenti di terreni, alloggi e quant’altro.

Il 1975 fu l’anno della casa di legno.

Per motivi di lavoro, mio padre entrò in contatto con un tizio del cuneese che commercializzava case prefabbricate di legno, ossia dacie russe. Così, nel giro di poco tempo casa nostra cominciò a essere invasa da progetti di case, del tutto simili alle casette della Lego con cui avevo giocato tanti anni prima, ma in fondo neppure troppo diverse dalle case nella prateria di Zeb Macahan, l’eroe di  Alla conquista del West. Ecco rulli di carta oleata grigia con le planimetrie tracciate in nero, e brochure con le foto delle case in vendita. Tutto prefabbricato, tutto legno sano, tutto semplice. E soprattutto economico. Ricordo, dopo cena, i progetti srotolati sul tavolo di cucina, mio padre che illustrava con il fuoco sacro della meraviglia e noi con gli occhi incollati a seguire le sue dita che percorrevano recinti, verande meravigliose, mansarde da gnomi, e finestre all’inglese divise in quattro quadrati.

“Mica andremo a vivere in una casa di legno, fuori città?”, gli chiedevo. Adoravo vivere nel nostro appartamento in affitto, dove  ero molto felice. Un vicinato simpatico, ci conoscevamo ed aiutavamo tutti e soprattutto c’era tanto verde. Vicino a scuola, vicino al centro, vicino agli alberi, tanti alberi. “No, certo”, mi rincuorava lui. La dacia sarebbe stata una specie di seconda casa, per i weekend, a respirare l’aria buona della collina, nei boschi intorno a Pecetto. “Certo”, diceva, “non è molto pertinente come stile, ma se si trova il terreno giusto sarà un paradiso”.  Mia madre, con un pezzo di Mitteleuropa nelle vene,  ripeteva la solfa che un pessimista è uno che ha conosciuto da vicino un ottimista, e ci metteva del suo: “Una casa di legno? Ma non siamo in Svizzera, non siamo in America, non siamo in Svezia, non siamo in Russia, non siamo..” e ripercorreva la geografia dei paesi traboccanti di abeti.

Pecetto è un paese sulla collina a pochi chilometri da Torino circondato da boschi e frutteti, fino ai primi del secolo meta di gite domenicali di operai e artigiani (tra cui i miei nonni),  con un’economia basata sulla coltivazione delle ciliegie. Quando ero ragazzina, i terreni costavano poco, c’erano case coloniche bellissime ma in stato di degrado e piene di muffa,  che se solo uno avesse avuto i soldi per restaurarle sarebbero valse un patrimonio.

Ma, una casa di legno non sarebbe mai valsa un patrimonio. Si sarebbe immediatamente deprezzata. Certo mio padre ne era consapevole, ma era un investimento per noi, una casa che con qualche sacrificio forse ci saremmo potuti permettere. Così “prefabbricato” divenne l’aggettivo vincente, un leitmotiv della nostra storia familiare che univa leggerezza, facilità e fantasie di weekend agresti. Ma mia madre non ne volle sapere. Partì all’attacco con il fatto che la località era umida (vero) e “d’inverno cosa ci andiamo a fare?”. Era un sacrificio economico da sostenere. E poi la manutenzione. E poi, magari, l’eccessivo isolamento. E poi i rischi incendi, “una porta che si butta giù con una spallata”, e altri ottimismi di questo genere. Così a poco a poco la fantasia si sgonfiò come una meringa mal riuscita, e il progetto non continuò.

Ma continuò nella mia testa.

Tutte le sere sfogliavo quella  brochure con le foto delle case e fantasticavo. Le colline intorno a Pecetto erano diventate la campagna inglese, o la prateria del West americano, o le case dei film di Bergman (che mia madre mi dispensava in giovane età – grazie a lei, però, amo il cinema).  La veranda era il luogo dove stare gli amici, leggere, la mansarda dove sognare tra le nuvole, ascoltare i miei dischi, guardare l’alba e il tramonto, la sala un posto dove mio padre avrebbe potuto collocare un vero pianoforte verticale di seconda mano e non la tastiera elettronica con la quale strimpellava  jazz a casa dopo il lavoro, il giardino un posto dove prendere il sole d’estate con mia madre. Penso di avere consumato quelle foto con una specie di raggio laser che i miei occhi di bambina invasati di immagini abitative esotiche puntavano su quelle pagine. A me piaceva rossa con le finestre bianche quadrettate, quella con la veranda costava di più, ma vuoi mettere? Mio papà concordava.

Accantonato il progetto, nessuno tornò indietro. Tuttavia mi resi conto che le case di legno mi piacevano davvero, mi erano sempre piaciute, le avevo sempre amate, nei film, nella realtà vera come la  montagna, dove mio fratello affittava a Gressoney una casa Walser con venti amici. Una casa che crepitava ad ogni respiro ed era magnifica. E le avrei amate sempre di più.

E poi…  qualche anno dopo, arrivò la Sila. Una delle estati con i miei in viaggio verso la Sicilia, ci fermammo a far tappa nella meravigliosa regione calabra. Visitammo il parco silano e un villaggio famoso per (indovinate!) le case di legno dai colori pastello immerse nei boschi. Ma allora era vero! Si poteva vivere in una casa di legno fiabesca, allora forse anche a Pecetto avremmo potuto! Niente, sogno infranto.

Ma ne sopraggiunsero altri di sogni, sempre di matrice paterna: ci fu l’anno della pasta fatta assolutamente in casa, l’anno dei centrifugati di carote, l’anno di Khrishnamurti, l’anno del possibile acquisto di una casa-cubo in Sicilia, totalmente da ristrutturare e soprattutto comoda da gestire da qui (!), e ancora l’anno del possibile acquisto di una casa prefabbricata  a forma di iglù, sempre in Sicilia, progettata da una ditta israeliana  che io, mio padre e mia madre visitammo per caso. Nel corso di una passeggiata infatti, mio padre rivolse al proprietario di fatto una vera e propria intervista sulla geniale struttura, che a parte ricordare un ufo, era davvero freschissima e meravigliosa. Mio padre si entusiasmava, si informava ma poi veniva sempre a patti con la realtà. I miei sublimarono le favole di seconde case, e raggiunta una più sicura tranquillità economica  iniziarono a viaggiare parecchio in Italia e in Europa.

In età adulta, nel corso dei miei viaggi negli Stati Uniti, ho visto tante case di quel tipo, tutte diverse. Ci ho dormito dentro, ho salito le scale ricoperte di moquette, ho ascoltato i procioni correre nel sottotetto e dormito in mezzo ai boschi del Maine. Ecco poi le case di legno degli immigrati russi in America, le case rifugio di certi eremiti dell’Oregon, isolatissime. Per non parlare delle palafitte di alcune località della baia di San Francisco. O le case di Ballard, il quartiere svedese di Seattle. Sono tutte altrove. Sono colorate, anche maldestramente, non rifinite. Eppure sono ancora l’immagine di quella brochure che ogni tanto si ripresenta a cinquantatrè anni.

Per ironia della vita, da sei anni abito sulla collina torinese a pochi chilometri dalla città, in un piccolo appartamento di un condominio di tre sole unità circondato dai  boschi, da un rio, a sette minuti di auto dal cartello stradale “Pecetto”, località dove per altro mi reco spesso. In un prato vicino a casa mia, hanno trasformato forse un capanno per attrezzi di legno scuro in una dépendance, o forse in una casetta per ospiti. Sotto un ciliegio giapponese. In aprile faccio hamami, vicino a quella stradina sterrata.

Ed ecco che ho ripensato subito alle dacie. Mi immagino in una di queste casette, costruita su un minuscolo terreno vicino a casa, ma proprio in mezzo al bosco, senza servizi, senza wi-fi, solo per andarci a scrivere, leggere. Oggi sono più vecchia di quanto fosse mio padre allora, e più di allora adoro la natura e sicuramente più di un tempo anche l’isolamento. Non che dove vivo manchi.

Sublimare i sogni non è difficile, basta riscriverli. Essere consapevoli che certe cornici di vita che in modo surreale ci seguono, ci rincorrono, o si piazzano davanti a noi di tanto in tanto come foto, e a volte in modo struggente ci perseguitano, arredavano già le pareti della nostra mente.

Sono le cose, le persone, i luoghi che qualcuno che ci amava e che amavamo ci ha fatto amare davvero.

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collina torinese, pressi rio Martino, 2019

 

Quello strano clima

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Collina torinese (marzo 2019) Foto di Silvia Dacomo

È costato poco, davvero troppo poco, aggiornare l’immagine del profilo di Facebook, con il simbolo di sostegno allo sciopero mondiale contro i mutamenti climatici del 15 marzo scorso. Troppo poco. Nonostante questa mia opinione, ho aggiornato l’immagine della mia pagina Fb personale per qualche giorno, sensibile come molti e corresponsabile come tutti a/di questa mutazione ambientale innegabile. Pensieri angosciosi navigano anche molto lontano. L’isola di plastica nel Pacifico, grande tre volte la Francia, è la più orribile epifania di un mostro marino del tutto artificiale. Creato solo da noi. Che, paradossalmente, sta distruggendo anche grandi balene e quindi immaginari ancestrali.

Amo moltissimo la natura. Non sono stata, non sono e mai sarò (spero) un’integralista. La mia esperienza mi ha insegnato che la natura umana vive di contraddizioni invincibili, ribellioni momentanee e quasi mai durature, crea bilanciamenti e compensazioni alle sue storture, sublimazioni, e manca sostanzialmente di sufficiente coraggio.

L’Italia, il mio paese, dimostrava disprezzo e/o indifferenza già trent’anni fa nei confronti di chi cercava di essere un buon cittadino. Di chi, (come la sottoscritta non integralista), ha anche: riciclato la carta, evitato il cibo spazzatura, riciclato i vestiti usati, fatto riparare quelli ancora in buono stato, comprato usato,  chiesto ai negozianti di ridurre il packaging, usato l’auto il meno possibile. Forse perché educata in una famiglia attenta agli sprechi, per me tutto questo è stato facile da comprendere e mettere in pratica. Ma sicuramente senza integralismo. Ho conosciuto i veri coraggiosi e le vere coraggiose che vivevano al freddo con strati di maglioni, altri che trascorrevano il tempo al supermercato a decidere con rigore la propria spesa decifrando mille etichette, altri che in lunghi viaggi in auto si portavano i panini da casa per non mangiare in autogrill e incrementare cibi industriali, altri che non usavano bancomat e carta di credito per disincentivare l’induzione alla spesa facile. Li ammiro, ma non raggiungerò mai la loro coerenza.

Personalmente ritengo il benessere una conquista che non è sempre e soltanto stata raggiunta con una brutalizzazione coloniale, e ritengo questa democrazia marcescente migliore di qualsiasi teocrazia, dittatura, o regime comunista, nonostante tutto. Un “nonostante tutto” certamente pervicace nella sua prevaricazione. Ci sono però degli aspetti che solo un piano quinquennale,  forse potrebbe correggere, una pjatiletka che preveda bandi e divieti governativi per tutelare davvero il pianeta a scapito di comodità insulse e mai ragionate da parte dei singoli. O meglio incentivi e divieti. Un esempio eclatante e quotidiano: l’uso indiscriminato dei contenitori di plastica anche per gastronomia senza sugo… per l’insalata di riso basterebbe un semplice sacchetto di plastica biodegradabile… per dire, e invece no, al banco gastronomia ecco contenitore, domopack e busta di carta. Sono migliaia di rifiuti così, ogni giorno.

D’altro canto, anche credere che solo le aziende e le corporations siano la causa del riscaldamento globale è deresponsabilizzare il singolo individuo della sua ratio sul pianeta. Non fare nulla pensando che questo non ci riguarderà perché non saremo noi i giovani fra trent’anni, ma saremo forse già morti, è solo uno dei tanti, ignobili, atti di indifferenza. Non l’unico. È un deliberato rifiuto a diventare consapevoli. La sorprendente tecnologia ecologica, dal canto suo,  non nasce da un miracolo ma da una ricerca forte,  dalla conoscenza, dalla sensibilizzazione al cercare soluzioni ai danni creati fin qui. Le idee ci sono, le sperimentanzioni continuano, i prototipi sono in funzione. Mancano governi illuminati da una visione.

L’aumento della C02 è dovuta prima di tutto alla predazione umana che si esplicita anche nel rifiuto di un minimo cambiamento negli stili di vita e nelle scelte di consumo. I bisogni indotti sfruttano le proiezioni mentali che ciascuno si costruisce di se stesso nel mondo. Cambiare queste immagini mentali, sarebbe già una grande rivoluzione. Le industrie dovrebbero farci sempre più i conti, nel lungo periodo, e anche la qualità dei loro prodotti e della loro politica economica si dovrebbe evolvere per non soccombere.

Concludendo, vedere così tanti ragazzi sensibilizzati  sulla questione climatica, sulla volontà di un cambiamento degli stili di vita e dell’informazione non può non emozionare e far riflettere. Perché tutto è da ripensare. Starà a tutti loro far sì che tutto ciò non resti un movimento fine a se stesso, starà a loro proporre ideali perseguibili nel quotidiano, e non solo nell’eremitaggio come stile di vita. Starà a loro, capire come funziona non solo il mondo ma anche la natura umana. Starà a noi, non lasciarli soli.

 

Tippete e la lacrima di rabbia

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Alcune settimane fa, capita una cena tarda con un paio di vecchi amici in un posto ristoro di solito molto affollato, ma comodo per la zona in cui ci siamo dati appuntamento. Chiedo un tavolo, se possibile in una parte più tranquilla del locale. Ci propongono  di prendere posto al piano superiore dove – mi auspico – sarà possibile conversare senza farci schizzare l’ugola fra dirimpettai di tavolo in quei cinquanta centimetri che ci separano gli uni dagli altri. Al piano superiore, in effetti, tutto sembra tranquillo, pochi i tavoli occupati. Ma non badiamo allo spazio giochi per i bambini dal quale giungeranno grida scanzonate sempre più incontrollate. Seguiranno corse di gnomi indemoniati e inconsolabili piagnistei di altre creaturine sedute al seggiolone.

Alle spalle degli amici che mi stanno di fronte al tavolo, troneggia un monitor gigante che trasmette cartoni animati giapponesi. Si avvicendano volti rabbiosi dai capelli colorati, mostri palliformi di una bruttezza mai immaginata (ma forse sta qui il genio?). Odio e vendetta e grida, immagini fisse su  sguardi e occhi senza storia. Poi una carica violentissima di animali fantasiosi ma banali nella loro informità. Infine una principessa bionda che osserva con rancore ogni cosa mentre agita i pugni in aria fino a che una sola, grande lacrima di rabbia scende lenta, malgrado tutto, dai suoi tondi e scontati occhi blu.  Urla, e poi ancora urla.

La rappresentazione del dolore e dell’odio è anche catartica, certo, altrimenti faremmo a meno di buona parte della letteratura e del cinema. La rappresentazione sdolcinata e umanizzata degli animali è solo una proiezione del nostro ego, certo. Rifletto, scongiurando se posso il paternalismo. Quand’ero bambina alla tele trasmettevano una serie animata che si chiamava Filopat e Patafil di produzione della Germania orientale, due pupazzi longilinei e flessibili le cui storie avevano una colonna sonora diciamo “sperimentale” che vi invito ad ascoltare su YouTube. Erano di una noia mortale, e nonostante ciò piacevolmente assurdi tanto da stupire. Mia madre nella sua intelligenza ironica mi diceva “Sono solo una cosa diversa da Disney, tutto qui”. Di certo quei personaggi erano per me il lato tristissimo del cartone. Preferivo Tippete (o Thumber) il coniglietto di Bambi. In età adulta ho preso una coniglietta vera, girava per casa, si chiamava Tappo, non Tippete, ma era simpatica come lui. Mai vergognarsi della tenerezza.

Quando la Sicilia mi adottò l’anima

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Sicilia. Isola alla quale sono legatissima, per centinaia di ricordi, per l’esotismo che ho vissuto nella mia infanzia e adolescenza, io ragazzina di Torino, immersa nell’indefinibile plumbeo di una città allora industriale, con gli autunni presto-presto umidi di nebbia, specie lungo il fiume. In ogni tarda estate, dall’età di cinque anni fino ai diciotto, partivo per le vacanze con i miei genitori e viaggiavamo in macchina per millesettecento chilometri. Erano vacanze spartane, nella casa in affitto di una famiglia di pescatori, a San Vito Lo Capo, paese allora pressoché sconosciuto al turismo, meta sporadica di giovani camperisti del Nord Europa in cerca di luce sfacciata e ben definita e di qualche settentrionale non razzista che voleva scoprire il Sud.

Un mondo seducente, di cui amavo tutte le diversità: i tetti terrazzati, i dialoghi appassionati con chiunque capitasse di incontrare, i lucernari attraversati da un sole mai conosciuto prima, l’attenzione parsimoniosa verso l’acqua dolce, il sugo fatto con la murena perché non si butta via niente, la metafisica delle tinte marine. Nel corso degli anni ci sono ritornata, e ho visitato anche i vari arcipelaghi. Ogni volta è stato come ritornare in uno dei primi incanti della giovinezza, quello per le terre disuguali, per le culture lontane, meravigliose nella loro complessità, perché la complessità è a suo modo meravigliosa.

Anche le giornate nei piccoli luoghi di mare siciliani, hanno un’altra scansione, condivisibile in parte con altre latitudini-sud. Il primissimo pomeriggio è quasi un rito di passaggio: il sole fa un assedio agguerrito ma perdente agli scuri delle finestre, mentre la stanza fresca di muri antichi si riempie di silenzio e torpore crescenti. Le narici sono piene di profumi che sanno di salsedine, origano e melone bianco, e anche di profumi della sera precedente, ossia di quel gelsomino siciliano, il più tardivo tra i gelsomini che però fiorisce fino all’inverno. Nelle orecchie ronza vicino, ma in qualche modo anche lontanissimo, il frinire delle cicale. In strada non c’è più nessuno. E senti che fuori anche il sole starà profumando tutte le cose che cattura, le sterpaglie, il legno delle gelosie, l’aria quasi solida. Ti addormenti, poi ti svegli, sono le cinque di pomeriggio, è ora di iri a mari, andare al mare. Apri le gelosie e tutto fuori sembra di nuovo respirare, anche le voci.

Una canzone di Franco Battiato, Mal d’Africa, fotografa in musica, come nessuna altra canzone, questo momento siciliano, che ho fatto mio tantissime volte. Quasi un’educazione all’estate, alla quiete, dove tutto si allontana in modo naturale, pacifico. E anche se mio padre non usava la brillantina, certamente “qualcosa di astratto s’impossessava di me”.

Spume volanti in passeggiate oceaniche

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 Considero le spiagge dell’Oregon d’una maestosità rapace, che afferra e porta davvero lontano qualsiasi pensiero tu voglia trattenere. La mente butta giù le sue zavorre, mentre il vento ti sferza la faccia e la coscienza. Ed è su quei litorali  che si addensano a riva. Sembrano chiare d’uovo montate a neve. Sembrano batuffoli. Sono le spume dell’Oceano Pacifico, spume naturali rilasciate al largo dalle alghe e ricche di proteine. Pullulano e hanno sempre pullulato lungo i litorali selvaggi dell’Oregon e della California settentrionale (nulla a che vedere con le schiume provocate dall’inquinamento).

L’aria solleva questi soffici agglomerati e dà loro forme continuamente nuove, li respinge in mare, li incolla alla battigia, li soffia verso la parte più interna della spiaggia. Sulla riva le spume galleggiano, si sciolgono, si incollano, si ricompongono, e assorbono come spugne la luce del tramonto. Si rincorrono, fra piccoli uccelli che saltellano velocissimi. Un moto imponderabile e inaspettato.

Camminare su spiagge sconfinate è una delle attività all’aperto che preferisco, seconda solo al nuoto. In molti anni ho percorso centinaia e centinaia di chilometri a piedi, in paesi e regioni in cui queste spiagge vaste esistono e non conoscono stabilimenti. Spiagge libere per il corpo e la mente. In Marocco, Stati Uniti, Inghilterra, Scozia, Danimarca, Grecia, Andalusia. Anche in Sardegna, Corsica, Sicilia, fuori stagione o nei lidi poveri di strutture. E in tanti altri luoghi ho fatto lunghe passeggiate marine. È un modo fantastico per apprezzare la luce del giorno, rinfrescare la consapevolezza che siam qui per caso, per amore o per fatalità, accarezzati e abbandonati dalla natura. Indifferente a noi e magnifica. Come una spuma che vola.


 

Beatty, Nevada

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Beatty, Nevada (ottobre 2017, foto di Silvia Dacomo)

Beatty, Nevada.

Resistete. Non cercate Beatty su Google Maps, almeno per il tempo di lettura di queste righe. Provo a raccontarvelo. È un insediamento di minatori e agricoltori a mezz’ora di auto dalla Death Valley (California). È anche un luogo di tappa, se le strutture ricettive del parco sono al completo. Ci sono stata di passaggio alla fine di ottobre. Certe volte è come se mi trovassi ancora là.

Le abitazioni sono per lo più trailer home, e si avvista anche qualche casa costruita in pannelli di fibre di legno. Ce n’è una senza neppure il rivestimento, è di fatto una casa di compensato, il non finito della desolazione economica. Il giardinetto roccioso che la circonda, pieno di attrezzi da lavoro arrugginiti, è però il giardinetto della rivincita esistenziale curato com’è, abitato da pupazzi e animali in legno, forse costruiti da chi ci abita. Improbabili e kitsch, esprimono un desiderio irrefrenabile di vita, di bellezza a loro modo, di rimozione immaginaria della solitudine. Facciamo la provvista di acqua da tenere in macchina nell’unico supermercato della catena Family Dollar i cui giganteschi metal detector sono ricoperti di veli e teschi in vista di Halloween. Ci sono tonnellate di merci, e di offerte speciali, ma il supermercato è vuoto dell’umanità che imbraccia carrelli. La ragazza alla cassa trasmette dal suo sguardo tutto il blues che è stato composto nella storia. Anche se lei è bianca, molto giovane e i suoi occhi azzurri sono stretti in un viso gonfiato dal cibo spazzatura o dall’ingratitudine dell’amore.

A cena evitiamo i posti ristoro delle grandi catene e andiamo in un locale che trabocca di storia locale, scritte buffe e naturalmente. Anche lì zucche e fantasmi ovunque. Ordiniamo due chili e due birre, e la cameriera ci chiama “Honey”. Il chili è meraviglioso, con le spezie ben calibrate e il gusto della buonissima carne non è trucidato da condimenti assassini. Si avvicina un anziano cowboy che fa l’agricoltore e nel tempo libero promuove spettacoli country organizzati dalla associazione locale di cui fa parte, tutti amici del posto che si divertono un sacco a suonare dice. E ci informa del concerto dell’imminente fine settimana.

“Grazie ma venerdì non ci saremo, siamo qui solo di passaggio, un viaggio lungo”, “Capisco e dove state andando?” ci chiede cordiale, con la mano sempre appoggiata alla fondina del suo abito western, “Siamo tornati qui dopo tanti anni, e visiteremo di nuovo la Death Valley”, “Ah, be’ allora sapete già che dovete portarvi sempre dietro un sacco di acqua, i ranger non insistono mai abbastanza… lo sapete che ogni tanto raccolgono qualche viaggiatore… ne hanno trovati morti altri due, l’auto li aveva mollati in mezzo al niente non so dove e il cellulare non prendeva. Invece quest’estate altri due si sono salvati, ma solo perché hanno incendiato la ruota di scorta di notte per rendersi visibili. Se vi capitasse di rimanere in panne di giorno, state dentro l’auto… qualcuno vi troverà” dice scrollando le spalle. A quel punto io chiedo “Ma che differenza fa un po’ di lamiera, tanto l’auto diventa un forno, c’erano 53 gradi Celsius là fuori otto anni fa, me lo ricordo bene”, lui mi guarda disincantato poi aggrotta le sopracciglia e dice “Be’, il tetto dell’auto è pur sempre un tetto, e comunque è meglio che niente! E, for God’s sake portatevi degli snacks”. Disegnatevi nella mente un uomo dalla corporatura imponente, baffuto, in una vignetta tipo western, nel fumetto fategli dire “snacks”, e accentuate parecchio la pronuncia, e poi voltatevi, come noi due abbiamo appena fatto. Alle nostre spalle c’è una saletta con il bancone bar, gestito da una vecchia signora (la moglie del cowboy) che spilla birre e bourbon. Ci avviciniamo al bancone e paghiamo la cena. E seduta al bancone c’è lei.

Sotto un cappello azzurro da cowgirl, c’è quel  volto lì, quello che vedete nella foto. Segnato da quasi tutto. Argenti di bella foggia alle dita, unghie curate ma senza smalto, una camicia fantasia, ai  piedi calzettoni e sandali. Fuma e ha lo sguardo sornione e rappacificato con l’esistenza. Ci osserva e beve un sorso. “Abbiamo notato stando in giro che in America ormai ci sono divieti ovunque, qui invece fumate senza problemi”, le domanda con una risatina lui avvicinandosi alla cassa. “Ma da dove arrivate voi due?” chiede lei, “Da San Diego”. A quel punto la donna alza il bicchiere in segno di brindisi e dice con la voce che slitta su una risata grattata di nicotina “You know… guys… You’re in Nevada now, not in California anymore”. Siete in Nevada ormai, ragazzi, mica in California! Il suo orgoglio è al massimo. Si presenta, si chiama Janis. Poi mi dice “La tua felpa è molto bella”, “È low cost” rispondo, “Low quanto?” chiede lei, “Low 20 euro”, le facciamo un’approssimativa conversione in dollari. Ok, non le pare troppo. Pizzica un pezzo di tessuto tra indice e pollice e dice “Cavoli, è veramente bella” e io le dico “E a me piace molto il tuo cappello”, lei fa una risata e se lo sistema, si sposta i capelli ai lati. Poi mi chiede “Ma che ne pensi, ti piace questo villaggio?”. Se dicessi “interessante” mi sentirei vigliacca. ‘Interessante’ talvolta è l’aggettivo dell’ipocrisia, dico “Sì mi piace”, perché forse è la verità, perché è un posto assolutamente pazzesco. “Di cosa vive la gente qui?” domando, “Di miniere, di agricoltura, di qualche viaggiatore che ci fa una tappa prima di rimettersi in marcia per chissà dove” poi ci guarda tutti e due e chiede “Non lo trovate bellissimo?”,  mentre il suo entusiasmo fa a pezzi la sua fragilità. Risposta affermativa di entrambi. Si volta verso la proprietaria dietro al bancone e le dice “Ma hai sentito? Hai sentito? A loro piace questo posto, a loro che arrivano dall’Italia!”. E io consapevole del fatto che sto senz’altro per fare una domanda ovvia le chiedo “Janis, ma a te piace questo posto, ti piace vivere qui?”, “Tantissimo, mi piace sempre anche quando nevica! Sai è bellissimo anche a Natale, noi ci conosciamo tutti qui, siamo tutti amici, ci aiutiamo e questa signora – dice indicando la proprietaria dietro al bancone – e suo marito la notte di Natale mettono sul tavolo laggiù un piccolo regalo per ciascuno di noi. È una cosa incredibile oggi come oggi sentirsi considerati così”. La proprietaria dietro al bancone sembra intenerirsi per una frazione di secondo, è una sfumatura, è la versione femminile di Fat Moe che in Once Upon a Time in America, C’era una volta in America impacchetta il pasticcino, la Charlotte russe, per Patsy Goldberg. Continua a trafficare trafelata con birre e bicchieri e poi si prende una pausa e finalmente ci sorride e  io a quel punto chiedo se posso scattare loro una foto. Certo, che domande! Non chiedo un sorriso da cartolina, non ce n’è bisogno.  Fuori dal locale ascoltiamo la gente chiacchierare, non di baseball, ma del villaggio. È la fine della giornata per i lavoratori di Beatty, Nevada.

Il giorno dopo, facciamo colazione in un vecchio diner dipinto di azzurro. Amo i diner (stanno sparendo, non è una novità), e come la maggior parte dei diner, anche questo trabocca di calore, se calore significa non sentirti mai a disagio ad attaccare discorso con i vicini di tavolo, se significa essere in un locale le cui pareti non si sottraggono alla narrativa del luogo con qualche targhetta in metallo, poster popolarissimi, fotografie paesaggistiche scolorite, qualche articolo di giornale incorniciato, se significa cibo semplice servito in piatti non di plastica. È lì che conosciamo Jim, che dopo due parole ci invita a trasferirci al suo tavolo. Un ottantaquattrenne dell’Oregon che ha lavorato per una vita come muratore specializzato. Che ci fa a Beatty, gli chiediamo. Viaggia in camper con sua moglie! Non gliene importa nulla se ha ottantaquattro anni, lui viaggerà con lei fin che ce la farà. Ma dove vanno? Un po’ dappertutto. E cita diversi stati che non sono propriamente confinanti. Macinano migliaia di miglia, vedono cose bellissime. Eloquio brillante, ironia da spacciare, ci chiede dell’Europa. Di madre londinese, lui in Europa non c’è mai stato e ridendo conferma che non ci andrà mai, gli piace essere realista dice. “Mia moglie, be’… la lascio dormire, preferisce alzarsi un pochino più tardi, sapete… l’età”. Intanto ordiniamo le colazioni, noi si va di pancake e caffè ovviamente, lui ordina un piatto combo con omelette di verdure soffritte e cereali. Ci chiede quali siano le nostre prossime mete. Gli stati sul Pacifico sono tra i più progressisti, la politica la decidono California e New York, in mezzo è come se a volte non ci fosse niente, asserisce, mentre la cameriera ci versa forse per la terza volta infinito caffè. Scopriamo che è un avido lettore di fiction, ed è dispiaciuto di non conoscere altre lingue oltre all’inglese. Non ha avuto tempo di impararle dice, troppo lavoro e quattro figli. Ama viaggiare in America in assoluta autonomia, dopo tutto, dice, è facile viaggiare qui anche da vecchi, e poi a lui i viaggi organizzati non possono proprio interessare. Ci offre la colazione, insistiamo per il contrario ma non c’è verso, “Benvenuti in America allora, anche questa volta come tutte le vostre altre!”, dice afferrando il conto. Possiamo fare una foto? Ma certo che domande!

Beatty, Nevada. Incrocio di esistenze, lontane, lontanissime dai confini dall’Ego.

Renne paffute ma niente scherzi con l’elk

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Renne paffute ma niente scherzi con l’elk

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A un certo punto nella storia l’Oregon e la California settentrionale devono avere avuto un amplesso bellissimo. Sì. Ed è proprio  lì, dove si incontrano, che è nato un certo mondo selvaggio pieno di grandi mammiferi e dove foreste smisurate sopravvivono e dove vedi anche conifere piccole come un soldo di cacio con il cartellino della data di innesto “2008”, “2009” e capisci quanto ci mette una foresta a essere rimpiazzata.

È lì, nei boschi di felci umide attraversate da lance di sole (ma anche nelle pianure e persino lungo la Highway 1), che si possono incontrare gli elk, o cervi di Roosevelt, la specie di cervide seconda per grandezza soltanto all’alce. La cartellonistica invita a essere molto prudenti, a non avvicinarsi  (non più di 75 yards circa 70 metri) a questi animali.

Non è strano che gli animali selvatici non amino essere fotografati, e non è strano che non siano molto socievoli. Non è strano, e dovrebbe essere molto noto, ma la segnaletica stradale ed escursionistica deve fare il suo lavoro. E in questo caso lo fa in modo curioso e vi spiego perché.

Per il resto della fauna, orsi compresi, i disegni della segnaletica stradale nel West americano non rappresentano quasi mai (direi mai) la possibile reazione dell’animale, eppure per l’elk in alcuni sentieri funziona così come vedete in foto: cartello romboidale giallo ed escursionista quasi incornato!

Un incontro problematico di notte con un orso l’avevo avuto otto anni fa in un campeggio molto isolato nel parco di Yosemite in California, dove avevo anche firmato una liberatoria al momento della registrazione del tipo “sei consapevole che la zona è popolata da un gran numero di orsi e che il comportamento imprevedibile  ecc.”. Non è divertente sentire a due metri da te il ruglio dell’orso, e sentire l’orso che si sposta accanto a te nel buio pesto mentre stai andando ai bagni (alle 22.30 il campeggio staccava i generatori, buio totale, la torcia poteva essere rivolta solo verso  terra per via degli orsi). E non c’è niente, ma proprio niente di piacevolmente avventuroso, constati solo che le tue paure finiscono lì una volta per tutte, in una paura assoluta, ancestrale. Quella della fiera che ti sbrana.

Quest’autunno, per nessuna ragione, volevo lasciarmi condizionare da quella esperienza. Una condizione, quella della paura, alla quale siamo esposti continuamente con il mito della sicurezza, in particolare negli Stati Uniti, dove per ogni, e dico ogni, cosa, esiste un cartello che avvisa. Avvisa, avvisa e avvisa.

Siamo sempre più avvisati, ma non siamo mezzo salvati, spesso solo più terrorizzati per cose, che con le dovute cautele ovviamente, non rappresentano imprese impossibili né al limite. Non c’è scritto non entrare, c’è scritto (c’è disegnato) che è sempre a tuo rischio e pericolo. Ma, tutta la nostra vita è a nostro rischio e pericolo, se vogliamo, e qui in fin dei conti stai entrando in un sentiero segnalato, sai che ci sono grandi animali, sai come comportarti, hai letto l’esauriente decalogo del ranger “cosa fare in caso di”. Il resto è natura.

Entriamo, di mattino presto, in questa foresta di sequoie e felci e tanto altro. È stato un bizzarro personaggio, di cui vi racconterò in qualche prossimo post, ad avercela segnalata. Non è una delle foreste di sequoie più famose, quelle le avevamo già visitate anni prima. Ma una foresta che ricalca l’immaginario più straordinario, con un sottobosco pazzesco. Qui ci poche gallerie dentro le sequoie, da questo punto di vista il rischio di selfie e di folla è più basso. Infatti non incontriamo meravigliosamente nessuno.

È lì che dopo due ore di cammino, nascosti da felci smeraldo che hanno assorbito tutta la pioggia dell’universo, spuntano un muso e un palco di corna incredibili. È un elk maschio, magnifico e soprattutto molto molto vicino a noi. Troppo vicino. Molto meno dei famosi settanta metri, sarà a meno di dieci. La distanza di sicurezza non esiste più. Ma, scusate, è mai esistita in un bosco? Ci ha visti, un po’ ci fissa, un po’ continua a guardare davanti a sé. Nel bosco solo noi, escursionisti entusiasti, ma pur sempre abituati a incontrare nella nostra regione solo cinghiali, caproni, caprioli, cervi (e molto raramente così da vicino). Lui resta fermo dov’è, ci tollera a malapena, ce lo fa capire, si sposta un poco.  Regna sovrano dentro un’immagine. Un’immagine che conserverò per tutta la vita, un’immagine che non ho consegnato alla macchina fotografica perché non ho voluto rischiare di compromettere la situazione. Leggi: perché è stato meglio andarsene.

Eppure, la cosa incredibile è che non avevo più paura. Neppure quando gli davo le spalle e tornavo indietro, a passo tranquillo. Davanti c’era questo sentiero, questo bosco che sembrava uscito da Avatar per dirla con un film, in fondo siam sotto le feste piene di gif. e jpg. di renne paffute da tutte le parti che hanno lasciato i loro boschi, ossia quelli del nostro inconscio caotico e meraviglioso, per trasportare regali in un mondo prevedibile e troppo conosciuto. E mezzo avvisato.

Nota*: foto scattate nella foresta del Fern Canyon (Northern California) e nell’area circostante a novembre 2017

 

Perché viverci non significa necessariamente viverla

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Perché viverci non significa necessariamente viverla

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C’è tutto un “evviva!” per il verde metropolitano e collinare. Tutta una narrativa in linea con il rilancio di stili di vita naturali, orti pensili, aree verdi comuni nei cortili, cohousing in vecchie dimore (dalla vecchia catapecchia ristrutturata con sacrifici e dedizione alla magione storica del più o meno granoso possidente).

In collina ci vivo, alcuni chilometri dal centro città. In un piccolo condominio degli anni Cinquanta, con un giardino in comune (sconnesso e campagnolo, senza irrigatori – nessun prato stile campo da golf per intenderci) e diversi alberi da frutto. Un rio vi scorre accanto. Da qui, si snodano sentieri della rete escursionistica comunale. Al mattino presto e dopo il lavoro, o nei weekend, faccio spesso camminate nei dintorni, anche lungo le stradine asfaltate a zero traffico. Scarico fatica, pensieri, libero la vista che fra carta e monitor viaggia per lavoro su strade a lunga percorrenza di parole ogni giorno.

Di solito non incontro anima viva, raramente qualche jogger o qualche cane con padrone al seguito. E di solito, nei weekend i bipedi che compaiono sono per lo più ciclisti che arrivano dalla città. Ne deduco che il verde, per la maggior parte dei residenti, è soltanto un paesaggio che riempie la cornice di una finestra, è un esilio visivo che, in qualche modo, deve stare oltre il vetro. Basta che ci sia silenzio e vuoto automobilistico.

D’inverno, la neve qui cade ben più abbondante che in città. C’è un breve sentiero senza luci a due passi da casa: innevato è spettacolare. Eppure non ho mai visto nessuno camminare in mezzo a questa bellezza.

In tutte le stagioni, evidentemente, della casa si preferiscono le quattro mura, si esce solo per portare a spasso il cane: ragazzi, bambini e adulti tra computer e aria aperta hanno già scelto il primo.  Trenta anni fa anche qui era diverso, mi raccontano le persone che ci sono nate: ragazzi in slitta, bambini che giocavano ovunque, gente che passeggiava per sentieri, che raccoglieva frutti di bosco e funghi. Meno recinzioni. È solo un quadro naïf? Può darsi, ma accadeva, non sarà perché forse c’era meno narrativa social e più partecipazione?

Osservare a tempo perso che cosa accade di micro vite su cinquanta centimetri quadrati di prato, uscire nel bosco nelle sere di giugno per conoscere la fantasmagoria delle lucciole fra i voli silenziosi dei gufi, avvistare i cuccioli di scoiattolo (qui ce ne sono ancora di rossi) che si rincorrono sui tronchi, seguire le poiane che volteggiano al tramonto, e poi tassi, volpi, cinghiali, cinciarelle. E poi? La ricerca di more, ribes, fichi.

A conti fatti, tutto questo forse interessa realmente a ben poche persone che abitano il verde. Perché viverci non significa viverla, la natura. Presunti spiriti naturalistici che “stanno” su Youtube oppure ai vetri di Windows, o dietro la cornice della propria finestra, da quando il panorama è diventato principalmente una delle tante cose di questo pianeta da “usufruire”, e che ha creato, tra l’altro, anche un bel valore di mercato. Appassionati che non conoscono il profumo che ha il mattino e la notte in collina. Anche se ci abitano. Che peccato.

Nota*: foto scattate l’altro ieri durante una passeggiata nei dintorni di casa

 

 

 

Seattle, gentile e disperata

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Seattle, gentile e disperata

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Seattle, quartiere Fremont, novembre 2017 (Foto di Silvia Dacomo)

Non ero mai stata in America d’autunno, e dopo questo viaggio posso dire di esserci stata in tutte le stagioni. Per la verità, questa volta con i tanti chilometri percorsi le stagioni più diverse ci correvano incontro a grande, grandissima velocità. Dal gelo dell’Idaho al tepore californiano, dalla nebbia della costa dell’Oregon attraversata da una luce ambrata, all’alba sul Bryce Canyon blindata da un freddo impossibile. A Seattle era, invece,  proprio autunno. Un autunno però che io non avevo mai visto, con i colori delle foglie d’acero che rivestivano tutto, strade, auto, parchi rendendo – un po’ come riesce a fare le neve – tutto sospeso, però in una gioia cromatica sconosciuta alle nostre latitudini.

Seattle è davvero come abbiamo sempre letto ed ascoltato una città evoluta, pulsante, giovane, tecnologica, open-minded, fortemente anti-Trump, molto attenta all’ambiente, che tutela le minoranze e nella camera dell’albergo puoi trovare un cartello che segnala che in conformità a una disposizione municipale c’è il bottone antipanico, per difendere il personale dal sexual harassment, cioè dalle molestie sessuali.

Seattle è davvero un incanto architettonico e naturale. La sua biblioteca riflette la vitalità del centro e il calore che l’autunno le dona. E poi altri quartieri periferici. Che raggiungi comodamente con gli autobus pubblici, dove sale a bordo tutta l’umanità, noti gli hypster granosi che sfoggiano cultura alternativa e i senzatetto, e in mezzo c’è tutto il resto. L’educazione nei confronti di chi condivide lo spazio pubblico, in generale, non sembra però essere solo appannaggio delle classi istruite. Non so come spiegarvi, è una condizione che noti, che annoti per quando ne vorrai scrivere. Sono gesti, sorrisi, smania di raccontarti qualcosa. Fiducia. Trovi cartelli appesi che ribadiscono la volontà di accogliere senza discriminazione, un po’ aiuta a vendere diciamo la verità, ma nella maggior parte dei casi è una convinzione nobile, ne sono sicura.

Seattle ha un interessante quartiere svedese, Ballard, un po’ autentico e un po’ ripulito. Naturalmente, considerato il mio amore per il mare e i porti, ho fatto anche un giro al cantiere di rimessa delle imbarcazioni ma gli operai ci hanno sloggiati dicendo che se ci succedeva qualcosa bla bla bla non erano assicurati e che l’area non era accessibile agli esterni. Abbiamo raggiunto così il canale Chittenden Locks, e anziché proseguire lungo la strada abbiamo camminato tra i binari di una vecchia linea ferroviaria dismessa, regno incontrastato degli operai dell’area in pausa pranzo e del mondo reale. Lungo il canale, come nel Regno Unito, ho assistito al passaggio delle barche, interessante anche qui. Seduto su una panchina (lo vedete in una delle foto in basso), c’era un tizio, che si godeva lo spettacolo. Il suo cappello era tutto una dichiarazione di intenti, il suo berretto era un muro di lana in miniatura con tanti manifesti antagonisti. Era la sua narrativa, forse la sua conseguenza. Di fronte a lui gli  ingegneri della manutenzione manovravano le chiuse dirigendo il traffico e chiacchierando, e dalla sponda opposta una coppia di amici se la rideva, sembrava davvero uscita da un film dei Cohen (posso dirlo con certezza avendo avuto poi modo di ascoltarli).

Seattle è verde. Ecologica, ma proprio anche verdeggiante. Le colline di Fremont, e poi il parco lungo la baia. Il parco è un posto sereno dove fare belle camminate, osservare i cani, scambiare due parole con la gente e prendere il sole (il tempo è stato incredibilmente caldo per l’attitudine meteorologica di questa città).

Dentro tutto questo, dentro tutto questo tentativo amabile, artistico, politicamente corretto e meraviglioso c’è anche molto altro. La piaga, la tristezza, il fondo del pozzo. Pensate alla icona classica dei dannati. Si grattano la pelle fino a portarsi via i pezzi, è il rush, è qui. Si chiama meta-anfetamina e corre nelle vene superficiali e profonde della città. Non ho mai, dico mai, neppure a New York in anni ben più sospetti, visto come qui e a San Diego (altra situazione molto pesante) in California, questa realtà. Ma qui, rispetto a San Diego, mi ha colpito di più. La maggior parte di queste povere vite ha il cervello liquefatto. Bianchi, neri, uomini, donne, vecchi e giovani, ma soprattutto gente di mezza età. Non sono sedati, affatto, anzi sono attivissimi, scoordinatissimi, hanno allucinazioni continue, urlano ferocemente e vivono di spazzatura e stupefacenti. A loro, molti dei quali senza tetto e veterani di guerra (anche qui maglie, berretti, spillette ad indicarlo), si mescolano quei senza tetto che in termini tossicologici sono “puliti”. Ogni cento metri durante la giornata vedi camminare una persona con disagi psichiatrici. Dipende dai periodi, dicono, dalle ondate. Non saprei. Non sono la maggioranza, è ovvio. È una realtà che mi è parsa totalmente fuori controllo, per la quale, leggevo, non c’è quasi percorso di recupero che tenga, è già una battaglia persa a differenza di quelle contro altre sostanze. La sera, già subito dopo cena, la città si svuota pesantemente e sulla Third Avenue non ci entri proprio. Parlano molto, in piedi, con personaggi immaginari, che non vedi, non fotografi, di cui non sentirai mai la voce. Sono gli interlocutori invisibili della disperazione.

Sugli autobus si siedono accanto a te, alcuni non vivono ancora per strada e forse non ci vivranno mai perché hanno qualcuno che si occupa di loro. Per quel che ho avuto modo di vedere, gli autisti sono tipi in gamba, sanno come gestire tutte le situazioni, senza violenza o prevaricazione ma con totale fermezza e grandissima umanità. Seattle, città bellissima, gentile e a tratti disperata. Dove il wi-fi funziona sempre, a bordo dei bus e ovunque. Altre connessioni però evidentemente sono più problematiche.

In una delle zone della città che si svuotano per prime, ci viene incontro con fare molto alterato il tipo che nella foto, qui in basso, attraversa la strada. Avrà meno di quarant’anni, ha i denti a macchie marroni consumati dal crack. I suoi occhi raccontano già, sono occhi inquisitivi e arrendevoli al tempo stesso. Odora forte, di orina e di merda. Ci chiede “qualcosa, qualcosa?”, gli diamo due dollari. “Da dove arrivate?”, “Italia”, “A me piacerebbe tantissimo poter andare in Italia, e sapete perché? Per poter tornare e dire agli altri qui di essere stato al sole, bello sdraiato in un BEL posto, capito? Solo per questo vorrei andare in Italia, per poter dire agli altri di essere stato in un BEL posto”. Lo ripete ancora, per la terza volta.  Poi ci sorride e ci ringrazia più volte,  la mia tensione cala.  Attraversa la strada. Seattle è una città gentile e disperata.

(Dedico questo post a Michele, uno fra i miei più cari e vecchi amici)

 

Il banco vince sempre

Il banco vince sempre

 

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Foto di Luca Vittonetto

Da quell’angolazione, dietro quel vetro, riusciva a fare una considerazione a metà. Ma era bloccato lì, non si poteva muovere. Cercava di spostarsi ma qualcosa, una forza magnetica lo tratteneva ben saldo in quel punto. Il rinfresco doveva ancora incominciare. Quei tavoli non sarebbero stati fuori luogo in un casinò, e nemmeno a farlo apposta due tizi chiacchieravano sprezzanti, come se il banco vincesse sempre. Le hostess all’ingresso erano come manichini di un diorama, l’una a guardar di sottecchi l’altra con un sorriso stabile ma indefinito.

Da quella vetrata, forse famosa, continuava a curiosare ma proprio non riusciva a comprendere che diavolo stesse per succedere. Forse nulla di significativo. Eppure non riusciva ad allontanarsi. Tutto era inerte, tranne la scala mobile che scorreva vuota. Vide salire un tizio, con la testa fra le nuvole, che dopo un istante oltrepassò il riflesso del vetro che lo copriva. Riconobbe se stesso.  Cercò di raggiungerlo, riuscì finalmente a spostarsi. Il banco vinceva sempre, per questo era valsa la pena di andarsene prima che iniziasse qualunque cosa. E si svegliò.