Campeggio premio

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Campeggio premio

 

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Mesi addietro, fra i vari concorsi letterari in scadenza, ho scelto di inviare La libreria dei naufraghi a un premio letterario istituito nel territorio del Golfo della Spezia, luogo di mare dall’incantevole entroterra collinare. Ho spedito il tutto con convinzione, ma quasi al limite della scadenza, e poi me ne sono voluta dimenticare. Come un tentare la sorte, e al contempo negare di averla tentata. Del resto, non scommetto quasi mai, non è nella mia attitudine.

Eppure è successo. Ricevo una mail dalla segreteria del premio con l’elenco dei premiati e scopro che non rientro fra i vincitori, ma ho conseguito però il  “Diploma di merito opera finalista”, perché il mio libro è stato inserito per l’appunto nella rosa dei finalisti (e non molti tra l’altro). Incredulità (il mio libro è indie) ed emozione vorticosa: riconoscimento ufficiale per un libro che mi è costato quattro anni di lavoro durissimo, nei fine settimana, la sera. Emozione che sa anche di weekend imprevisto, di limpido weekend di sole, di primo bagno in mare della stagione (l’ultimo è stato a settembre). Poi le Cinque Terre, tanti anni fa. Ritornarci, per un’occasione importante.

Trovo un campeggio che mi ispira molto. Sito web essenziale, rustico, immagini fisse che non si possono ingrandire. Ok. Il marketing aggressivo è un’altra cosa. Venerdì pomeriggio ci mettiamo in viaggio. La struttura è in cima a un colle. Affittiamo una roulotte. Il superbo panorama sulla baia nutre pupille e battito cardiaco. Ma non finisce qui.

Visitiamo i dintorni che negli anni scorsi non avevamo esplorato. Framura, per esempio, non famosa come Manarola o Riomaggiore: spiagge scure di sassi, acqua limpida, quel poco di scomodità che annichilisce il visitatore chiassoso. E infatti è tutto tranquillissimo. E facciamo questa cosa di percorrere a piedi le gallerie – oggi solo pedonali e ciclabili – che un tempo erano state ferroviarie. La storia industriale è riconvertita in un percorso buio, freschissimo con squarci di galleria che si aprono al sole e ti fanno ammirare la scena mediterranea del mare. Raggiungi Bonassola e lì trovi il bagno di folla che Framura ti aveva fortunatamente risparmiato. Superiamo la schiera di ombrelloni e raggiungiamo un sentiero che costeggia il litorale finalmente roccioso. Un po’ di snorkelling, pesci in giusta quantità, persino qualche astroides. Limpidezza.

Domenica andiamo alla cerimonia di premiazione. La giuria legge alcuni brani di racconti, romanzi, poesie e saggi dei vincitori primi classificati. Ascolto con piacere questi testi, alcuni mi colpiscono parecchio, e mi piace l’atmosfera, rilassata. Anche se formale, certo, come si conviene a una cerimonia che coinvolge le istituzioni locali, ma al contempo rasserenante. Non c’è il sopracciglio alzato, cinismo e sarcasmo non si presentano e l’ego si muove con sobrietà. Forse perché respira salsedine e aria di bosco. Mi piace pensarlo.

Percorriamo la strada di ritorno al campeggio, non possiamo fare tardi, partiamo lunedì mattina molto presto. Attraversiamo le colline verdissime della Val di Vara e facciamo ritorno alla roulotte. L’esterno del campeggio è decorato come piace al gestore che lo conduce da trent’anni. No frills, direbbero gli inglesi, e qui di stranieri ce ne sono a iosa. C’è anche tutto quel che serve. E tutto quel ricorda gli anni della gioventù. C’è un vecchio calcetto, c’è una piccola biblioteca, ci sono lanterne appese, l’insegna è una tavola da surf, ci sono i dipinti della moglie del gestore, c’è la genuinità dei piatti preparati sul momento, senza fretta, che sanno di mare e di voglia di fare stare bene i viaggiatori. C’è la chiacchiera spontanea, il sorriso ironico di chi conosce la vita e la passione per il proprio lavoro. Danesi, francesi, inglesi, americani. Solo ottanta posti. Io amo molto il campeggio, la tenda. E nel corso degli anni, ho visto molte strutture cambiare, per necessità, per concorrenza, per fraintendere una buona tradizione con l’immobilismo. E anche questo posto, diventerà, ci ha detto il gestore, un’altra cosa. Forse un villaggio, un residence, che sfrutterà il terreno molto ampio della proprietà, oggi non occupato. Un’altra cosa. Non necessariamente peggiore, i villaggi e i residence possono certo seguire criteri virtuosi, vicini all’ambiente. Ma sarà, comunque, un’altra cosa.

Sarebbe falso dire che le cose più belle della vita mi sono capitate tutte per caso, anche se alcune bellissime, sì, mi sono capitate per caso. Per questo non amo molto gli aforismi-facebook il cui succo è che il caso è portatore indiscusso di bellezza e felicità “quando meno te lo aspetti”. No, dipende dove hai avuto la fortuna di nascere, e da quella “cosetta” nota come responsabilità individuale. Semplificando, mi è sempre piaciuta la sociologia.

Ma anche il campeggio, le sorprese, la natura, la possibilità di scostarsi dall’ombra globale della prevedibilità interessata.

 

Campi di colza e l’inquadratura del futuro

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Campi di colza e l’inquadratura del futuro

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Foto di Massimo Minioto

Grigio e giallo. L’orizzonte non si perde nei campi di colza ma in qualche agglomerato industriale, dove forse la colza finirebbe per trasformarsi in liquido o semiliquido. Olio, biodisel, miele.

Per ora è un tappeto fiorito che incontra fili dell’alta tensione, case, ciminiere.

Dare le spalle al conosciuto, di fronte a un nuovo colore della vita, significa scegliere l’inquadratura del nostro prossimo futuro. Come scattare una fotografia per ricordarci che un orizzonte con cui misurarsi esiste, che il finito può essere bello quanto l’infinito. Scegliere l’inquadratura. Scegliere se farci stare dentro solo fiori gialli, oppure se metterci tutto, la meraviglia e la consuetudine.

Ordinare le priorità dentro uno scatto, la macchina abbassata con l’obiettivo puntato sull’orizzonte, nell’indecisione della realtà che vorresti ottenere, dalla vita e dalla foto. Costruire un significato non è mai stato semplice.

Manovre di passaggio

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Manovre di passaggio

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Lo scorrere dell’acqua nei canali. L’Inghilterra ne è piena, e l’apertura delle chiuse è narrazione di attesa, curiosità, passaggi. Sulla banchina, passanti e viaggiatori sono coinvolti. Sì, coinvolti. Per dare una mano e sentirsi partecipi di quel passaggio; per osservare e giudicare le manovre; per dire la propria e scansare la noia all’uscita dal lavoro.

A volte, due barche passano insieme. E non sono solo due barche che passano, sono spesso due realtà che si affiancano e forse non si sarebbero mai incontrate. Metafore straordinarie della vita, delle opportunità.

La barca con a bordo tutta la famiglia per il weekend, e la barca di chi con la barca ci lavora, trasporta oggetti, che sono rottami ma anche  ruote, piante, contenitori, cavi. E quindi spostamento, ossigeno, spazio, collegamento.

Una barca scura e pulita carica curiosità e distrazione ma anche l’attitudine control-freak del barcaiolo, l’altra confusione e oggetti materiali ed esperienza. Ma in un viaggio bisogna imparare sempre a fidarsi.

Così  mi narrò questa chiusa sul fiume Avon, nella Contea di Somerset.

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Tempo gitano e galantuomo

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Tempo gitano e galantuomo

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Ecco invece, dopo Calatrava, la narrativa per eccellenza della Spagna meridionale. Flamenco. In un locale un po’ fuori mano di Siviglia ma, mi dissero, di quelli giusti.

Non il flamenco per imbambolare il turista, per intenderci. Posto ruvido, affollato, tanta sangria, e quel pubblico attento che non fa sconti agli artisti mediocri.

In quello spazio, di anime e musica autentica, questa ballerina colorava l’aria. Era compresa del ballo, ma anche della sua gioia nel danzare. Forse erano la stessa cosa. Il poster sul muro era quello del Festival Flamenco de la Frontera del 2011 a Morón, di un anno prima. Ma la foto in bianco e nero era stata scattata nel 1967 e immortalava tre musicisti, Joselero de la Frontera (che non si vede), Steve Kahn (chitarrista jazz statunitense) e Diego del Gastor (chitarrista di flamenco).

In quello spazio, che la ballerina tinteggiava con l’azione, tutti quei tempi si sovrapponevano in eco gitane. Millenovecentosessantasette, duemilaundici, duemiladodici, erano tutti lì gli anni e forse i millenni, in un unico istante. E dal tempo del poster arrivava un battito di mani, un incitamento. Alla danza, alla vita, alla musica. Come se nulla possa meritare veramente tristezza. Eccezione fatta per la malinconia, di cui il flamenco si nutre per poi sublimare.

Una foto sfuocata di una serata nitidissima e bellissima. Capitata per caso, grazie a quei musicisti sul palco sconosciuti, ai ballerini sconosciuti. Grazie anche ai suggeritori sconosciuti di luoghi sconosciuti.

Pista d’atterraggio liquida

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Pista d’atterraggio liquida

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Esiste sì un’altra narrativa della Spagna meridionale, che oblia per qualche ora flamenco e azulejos.

E la conosci dentro la Ciudad de las Artes y las Ciencias, dove la maestosa opera di Calatrava e Candela è atterrata sull’acqua che l’accoglie come un’astronave meravigliosa.

Ognuno ha qualche volta le emozioni che si merita, che arricchiscono il già conosciuto di un luogo. A Valencia, mi appassionai parecchio a questo posto che ospita, tra le altre cose, anche il celebre parco oceanografico. Gli specchi d’acqua di migliaia di metri quadri sono la fluida pista d’atterraggio di un sogno, la cui sola visione inchioda il tuo stupore a forme esatte e sorprendenti. Arte così prossima al futuro, che lo ha persino anticipato prima che mai si avverasse.

Il cielo era cupo e caldo di nuvole. Non icona dell’azzurro mediterraneo. E intorno prodigioso chiarissimo smeraldo riflettente.

 

Moonlight, una lezione di nuoto

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Moonlight, una lezione di nuoto

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(Questo mio testo contiene spoiler della trama). Uno spacciatore di crack offre ascolto e riparo esistenziale a un bambino malato di solitudine, emarginato con violenza dai suoi simili, e dai suoi stessi luoghi difficili e disperati. Siamo in una parte della storia di Moonlight. In mare avviene una delle scene più significative, nelle verdi acque della Florida dove l’uomo insegnerà a nuotare al bambino.

In un’intervista sul NYT (24 novembre 2016), il regista Jenkins racconta del bisogno di inserire nel film uno scambio spirituale tra i due personaggi che sono, in quel punto della storia, nel complesso ancora due sconosciuti. Il momento di empatia più forte avviene dunque nell’elemento simbolico per eccellenza: l’acqua. Il regista spiega che la scelta del tipo di inquadratura doveva essere “immersive for the audience”, e direi che l’obiettivo è stato ampiamente raggiunto come ben si addice alla intelligente rappresentazione cinematografica di ogni rito di passaggio.

Il profumo del vento che soffia dall’oceano, ma anche a suo modo l’immersione del volto nel lavandino pieno di acqua gelida, e la contemplazione del mare sono elementi ricorrenti nel film e in qualche modo sono le uniche realtà che rimuovono la violenza che alberga in questa storia sin dall’inizio. Il ragazzo, giusto e pacifico, vorrà uscire vincitore dai soprusi, ma agirà con violenza a sua volta e finirà in carcere. Una volta scontata la pena, sarà una persona totalmente nuova: tutta la sensibilità di cui era capace, la visionarietà silenziosa che lo caratterizzava saranno annientate nella sua corporatura autoritaria di spacciatore, grande, ultra-palestrato, silenzioso e forse molto ricco. Nel suo passato le uniche positività sono state il mare e l’amore verso un coetaneo che ritorna. Moonlight è un film romantico e intimista che racconta di molte impossibilità.

Siamo fuori da Spike Lee sicuramente, ma dentro qualcos’altro di non liricamente scontato. Infatti lo spacciatore “buono” è lo stesso che controlla il quartiere della droga dove la mamma del ragazzino acquista e consuma la sua. Quindi, la poesia di questo film non si piega – a parer mio – alla melensaggine, ma apre invece con coraggio all’indagine dei sentimenti negli abissi delle contraddizioni sociali. La narrativa finale è di una forza dirompente nel ribadire, pur senza rappresentare atrocità, che l’istituzione carceraria autoproduce mostri nuovi, di nuove sembianze. Che posseggono ancora un altrove, da qualche parte nella mente.

Qualcosa di hippy, Bolinas e Nina Simone

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Bolinas (California),  video-ricordo

Certe nevrosi armate tengono in ostaggio i pensieri, e la mia allenata razionalità a volte molla. Mi capita così di emigrare volentieri nel ricordo di questo luogo che registrai nel video a bassa qualità che vedete qui. Un minuscolo insediamento sul Pacifico, venti miglia a nord di San Francisco. Ci ho soggiornato molti anni fa. Un’enclave dal candore artistoide che si chiama Bolinas. Ex hippies ed hippies vecchi e nuovi, agricoltori, artisti, ecologisti, surfisti, pescatori vivevano un loro sogno di esistenza e di pensiero in una riservatezza autentica. Gli sporadici visitatori del fine settimana piantavano la tenda sulla spiaggia, leggevano, andavano in canoa, surfavano onde modeste senza quella necessità tutta attuale di avere un pubblico esaltato…

Bolinas ha ben due acque: la laguna a ridosso del villaggio popolata di foche, e la spiaggia sull’oceano. C’era poi questo book exchange, libri usati a offerta libera, la porta sempre aperta. Entravi, prendevi un libro, depositavi i soldi (il prezzo suggerito variava da un dollaro a venti dollari a seconda del valore che tu davi al contenuto del libro – non al suo stato materiale), potevi andartene o restare lì a leggere. Il cosiddetto honor system, lì come altrove funziona. Al piano superiore tute da surf appese a sgocciolare.

La cultura locale trasmetteva salsedine. Nessuno cercava di convincerti della bontà delle proprie scelte, anche perché le vedevi, le leggevi, le ascoltavi le scelte, a volte eccessivamente nostalgiche e naïf, ma sempre appassionate. Nei dipinti sulle case, nei murales, nelle chiacchiere che ti capitava di fare e ascoltare. La sera si mangiava pesce in un vecchio locale con le tavole da surf appese al soffitto, e la musica degli (giuro) Eagles di sottofondo. Turisti zero. Era (e spero lo sia ancora) un posto fuori dal tempo e presto o tardi finirà in uno dei miei prossimi racconti o nel nuovo romanzo che sto scrivendo. Ma se qualcuno avesse la curiosità di sapere a cosa diavolo mi sono vagamente ispirata per il retro della libreria di Kieran McHamilton ne “La libreria dei naufraghi” in questo video lo scoprirà. Mentre ascolta la voce di Nina Simone cantare in sottofondo “Buck” e “Since I Fell for you”.

 

Non ci sono più criteri, signor Zuckerman

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Non ci sono più criteri, signor Zuckerman

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Il mio libro delle vacanze natalizie è stato La macchia umana di Philip Roth, autore di cui avevo letto in passato diverse opere. Scrittore intenso e scomodo. Mi sono fatta volentieri imprigionare in questa trama che è un crudele viaggio di sola andata nella landa del conformismo e del “politicamente corretto”, che generano a loro volta (spesso) altro ottuso conformismo che non è – paradossalmente – solo quello del perbenismo di origine conservatrice più retriva ma anche quello dell’antagonismo progressista.

“Non ci sono più criteri, signor Zuckerman, ma semplici opinioni”, così il personaggio di Ernestine nel suo formidabile monologo sintetizza i danni sociali di un’istruzione sempre più semplificata che trascura la storia (a scuola non si leggono più i classici, non si consegna più una copia della Costituzione insieme al diploma, i corsi di recupero al college insegnano tutto quello che gli studenti avrebbero già dovuto imparare alle medie superiori, e così via). Riflessioni e situazioni non solo americane, ma globali e che ci appartengono. Il professor Coleman Silk pagherà alto il prezzo del politically correct, dietro il quale si cela spesso l’incapacità di fronteggiare questioni sostanziali con l’illusione che tutto si possa risolvere a partire dal linguaggio. Proprio lui educato sin da bambino proprio a difendere la ricchezza del linguaggio, a imparare “che le cose avevano delle classificazioni”, a imparare “l’importanza di nominare gli oggetti con precisione”.

Il personaggio di Delphine, carrierista universitaria che userà la logica per sopraffare e poi per nascondersi da un errore madornale, è l’antagonista di Faunia, la trentaquattrenne analfabeta amante del vedovo e anziano Coleman, coltissimo insegnante di greco e latino. Faunia ha un rapporto con la natura esclusivo, liberatorio (un cliché in cui incasellarla è arduo). E infine Les Farley. Reduce del Vietnam, instabile di mente, colto nella sua devastante e crudele tranquillità mentre pesca solitario nel ghiaccio.

Il film (con Anthony Hopkins e Nicole Kidman) tratto dal libro io non l’ho visto. E forse non lo voglio vedere. Non certo per riluttanza snob (ossia: i film-tratti-dai-libri-deludono-inevitabilmente), ma perché la lettura così appassionata di quelle pagine ha proiettato nettamente i personaggi sullo schermo della mia mente, che li comprendo mentre mi spiegano altro della vita e della società. Patirei qualsiasi semplificazione. Come le ho patite del resto nella pur godibile trasposizione cinematografica del libro Pastorale Americana, diretta e interpretata da Ewan McGregor.

La macchia umana è un libro immenso: il drammatico e consapevole rifiuto verso la madre, la ricerca della libertà, Bill Clinton e Monica Lewinsky come metafora della costruzione di un’opinione pubblica infantile, la resa della ragione di una massa che continua a credere in ciò che vuole credere. Lo spirito si accascia sulla consolazione, la logica difende l’interesse e non la verità. Trecentonovanta pagine che raccontano in modo meraviglioso tutto ciò che non si vuole vedere: il peso della storia sociale nella storia individuale, l’invidia che non saprà mai diventare ammirazione, il giudizio della comunità che si attiene allo stereotipo più facile da dimostrare, e una vita interiore che non conosce confini.

L’autunno, il foliage e il responso di Click

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L’autunno, il foliage e il responso di Click

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Il nostro tempo, dominato dal continuo responso di un click, ha relegato l’attesa a poco più che un fastidio. Eppure, l’autunno è stagione di passaggi graduali. Così ci hanno raccontato le arti e non di meno l’esistenza e la nostra stessa natura biologica. Nuove età dell’amore, malinconiche consuetudini, bilanci, dolcezze del riposo della terra.

Eppure oggi anche l’autunno sale alla ribalta mediatica e si riduce a un evento. Diventa in una parola “foliage”, ossia spettacolarizzazione del massimo punto di intensità del fogliame. Ecco allora ampi panorami arborei in un incendio di tinte sublimi che è già promozione di viaggio. Il luogo diviene meta. E giustamente, perché lo scenario è fantastico! Ma credo che questa rappresentazione dell’autunno tralasci un aspetto fondamentale: il lento mutare.

I mutamenti graduali della natura sono cari a chi la ama profondamente, agli escursionisti, agli anarchici dello spirito. E  naturalmente a chi piace osservare non solo il traguardo ma anche il suo prima e il suo dopo, cioè la storia. Una mia idea di autunno rubata qui, sulle colline torinesi, con qualche dilettante scatto.

 

 

Su Gorropu

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Su Gorropu

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Lo sappiamo bene. Tutte le sfumature tonali tra il blu e il verde, possibili e fantasticate, il mare della Sardegna le possiede. L’identità dell’isola è fatta di acque marine luminescenti, litorali di spiagge candide, cale minuscole e dune.

Eppure.

Mi è capitato di conoscere altre acque sarde, che riportano a immaginari meno consueti, a spazi riservati e lontani, a risvegli profondi di fronte alla natura. È stato l’incanto di Su Gorropu, nel complesso montuoso del Supramonte (ricordate la canzone di De André?). Una gola, detta anche, per maggiore brillio mediatico, “canyon”. Ma è pur vero che di questo si tratta ed è impressionante. Al termine di un lungo sentiero nella macchia mediterranea, si apre però una valle che conduce al canyon vero e proprio. È una valle minuscola e delicata. Dove la fatica per raggiungerla sotto un sole intransigente si dimentica in un istante.

Una spuma rosa ondeggia sotto il cielo cobalto, sono gli oleandri. Una forza candida s’impone, sono i massi bianchi di roccia calcarea. Bianchi e levigati come confetti. Imponenti e surreali come L’Angelus architettonico di Millet di Salvador Dalí.

Era luglio e il sole era decisamente alto. La valle era deserta. In una giornata così tersa, dopo giorni di meteo indeciso,  le acque del vicino Golfo di Orosei erano così indescrivibili che per gli amanti del mare come me scegliere di fare un’escursione nell’entroterra sembrava assurdo. Eppure. In quella valle del Supramonte, le pozze d’una trasparenza disarmante e meravigliosa erano messe lì per inebriare di frescura. Messe lì per farci un bagno inaspettato e sorprendente.

C’è sempre un luogo che sfugge al canone, e c’è sempre un luogo al quale si giunge senza averne visto prima neppure un’immagine, ma semplicemente avendo seguito un’indicazione stradale, una lettura o un suggerimento. Un luogo in cui tutto diventa evidente. Neppure più luogo, forse solo meraviglioso archetipo.

 

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