Un uomo a nudo prima di Frankenstein Junior

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Un uomo a nudo prima di Frankenstein Junior

 

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Avete mai visto il film “Un uomo a nudo” ? Un avvenente e inquieto Ned Merrill, interpretato da Burt Lancaster, decide di attraversare a nuoto tutte le piscine dei suoi vicini di casa e amici. Nel corso di questo insolito tragitto natatorio dialogherà con i proprietari delle ville e le conversazioni restituiranno un quadro sconfortante di una società conformista e inconsapevole. Secondo mia madre, con la quale vidi da ragazzina questo film drammatico (titolo originale “The swimmer”), il soggetto era molto originale e a suo modo sviluppato in modo profondo. Originale senz’altro, e contro il perbenismo sociale anche. Soprattutto se si pensa che il tema del nuoto nel cinema hollywoodiano era stato soprattutto un elemento di spettacolarità, pensate alle varie “Bellezze al bagno” con Esther Williams. Erano film certo di superficialità (visti da bambina al mitico cinema Ariston di Torino), ma indimenticabili le magiche figure di sincronizzato cariche di un’atmosfera sognante – e chi lo nega è intellettualmente disonesto.

Mia madre, Luciana, non era un’intellettuale e non era laureata. Amava il buon cinema introspettivo, perché nella sua storia friulana di emigrati c’erano state tante cose da capire e l’aiutò l’amore per i libri, il cinema, la radio (il teatro alla radio, quanto ne ascoltava). Luciana me li ha trasmessi tutti e tre questi amori, lei grande fan di Ingrid Bergman, e continuando con un cognome affezionato e un cambio di due lettere, molto anche di Ingmar Bergman. Un libro che lei faceva girare orgogliosamente per casa era Cambiare di Liv Ullman, moglie del regista svedese e attrice di grande talento. Libro semplice ma nordico anch’esso, con la foto di copertina in bianco e nero che ritraeva il viso della Ullman icona norvegese di malinconica inquietudine.

Quando ero molto giovane, ho conosciuto piacevolmente, grazie a mia madre, molti film scomodi e importanti, e dopo tante visioni (con chiacchierata finale, non chiamiamolo “dibattito”) di pellicole internazionali e meravigliose come “Scene da un matrimonio”, “David e Lisa”, “Un uomo da marciapiede”, “Sinfonia d’autunno”, “Gruppo di famiglia in un interno”, “Ludwig”, “Il maratoneta” sono tuttavia riuscita a sopravvivere al pessimismo cosmico senza perdere del tutto il sorriso grazie al jazz che ascoltava mio padre appena tornava a casa dall’ufficio – lui, Umberto, torinese ma mai mainstream – alla sua devozione, per dirne tre, per “Frankenstein Junior”, “I Blues Brothers”, “A qualcuno piace caldo” (il primo lo vidi con lui e una mia amica quando frequentavo le medie inferiori, e lo vidi piangere dal ridere nella sala che all’epoca si chiamava Corallo, poi Studio Ritz, poi… ha chiuso i battenti). Il senso dell’ironia, a volte un po’ troppo istrionica nella conversazione, lo posseggo fortemente e forse lo devo a lui. Tutte le volte che rivedo Radio Days di Woody Allen, penso all’atmosfera della mia famiglia all’epoca dei miei dodici anni e ci ritrovo sempre alcune affettuose affinità che trascendono le differenze temporali e geografiche. Quelle degli anni più belli e fortunati dei miei genitori. Spontaneità, dialogo, stimoli, divergenze di opinioni e scontri generazionali, chiasso. Silenzio no. Non negli anni più belli. Dove eravamo certamente tutti “sconnessi”, ma mai indifferenti e abitavamo in una vecchia casa in affitto e conoscevamo i nostri vicini per nome.

Echi di David

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Echi di David

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Musiche che ti catturano subito. E per “subito” intendo presto nella vita, presto, quando sei molto giovane. Un entusiasmo che ti disorienta, perché non insegue affatto i tuoi gusti musicali primari ma in un attimo li rovescia tutti come birilli in uno strike.

La prima volta che ho ascoltato Echoes avevo sedici anni e fu una folgorazione. Facendo due conti era il 1981, e facendone tre il disco era uscito nove anni prima. I Pink Floyd svettano nel mio parco musicale, che tiene insieme tanti magnifici alberi dalle fronde sonore, nei quali scorre una linfa classica, rock, prog, melodica e cantautoriale, e poi una cotta per David Gilmour e per la sua voce io ce l’ho sempre avuta.

Anche le isole d’Hyères, dove ogni anno da più di venti ci passo almeno un weekend lungo, fanno parte del mio parco di disintossicazione dal mal di vivere planetario. Sull’isola maggiore, Porquerolles, c’è una cala lunga e stretta che si chiama Gorge du Loup. Per chi come me la raggiunge da escursionista, la discesa non è del tutto banale (si scivola), e le sponde rocciose non agevolano certo una permanenza balneare. Che sia stata creata dalla natura per essere vista dall’alto in tutta la sua magnificienza di colori e purezza (con il vento giusto)? O per una rapida nuotata per poi andarsene sapendo che per tutto l’anno te ne ricorderai? Mi piace immaginarlo perché giocare con queste illusioni fantasmagoriche mi ha sempre reso felice. Quel che so per certo è che è un luogo dove nidificano i gabbiani, dove da anni un legno bianchissimo è incastrato tra le rocce, segnaposto surreale nella scogliera fiorita in primavera.

Nel primo tratto della cala, quello che si vede nel video (in fondo alla pagina), ci si balocca nuotando fra colori e trasparenze, si fa qualche tuffo. Poi nuoti per l’intera lunghezza, doppi il piccolo capo sulla sinistra e fai snorkeling luogo la costa rocciosa dietro la cala. Perché dietro la punta, l’acqua sprofonda di trenta metri nel suo color cobalto, stracolma di occhiate e pagelli, e sulle rocce gli anemoni si piegano nel vento liquido fra l’impertubabilità delle stelle marine e la danza delle donzelle pavonine. Ci sono molti archetti rocciosi in cui infilarsi, caprioleggiare.

Ma cosa c’entra tutto questo con Echoes? In una nuova età recente, quella della presunta maturità, l’ho ascoltata nella Gorge du Loup con l’mp3 subaqueo. Qui non c’è l’albatros che volteggia sopra i tuoi occhi mentre nuoti a dorso, ma il gabbiano. Cambiano le simbologie, i riferimenti, ma questo pezzo sembra essere scritto per l’acqua. Dentro l’acqua. Da giovane quando l’ascoltavo mi estraniavo come se fosse un brano di musica classica, e lì compresi la salutare potenza della musica psichedelica. Oggi so per certo che quel suono appartiene a questa cala favolosa e a tutte le creature che la abitano.

 

un’idea della Gorge du Loup: MOV01451

 

 

La vuoi una Fisherman’s?

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La vuoi una Fisherman’s?

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Mi dice che non si ricorda quando ha avuto inizio quella devozione. Io penso in Inghilterra (mi piace pensarlo) dove lei, bella bella, se n’era andata per qualche settimana in un soggiorno-studio presso una famiglia. I suoi racconti, durante il nostro primo anno di ginnasio, restituivano realtà a quella fantasia tutta iconografica di United Kingdom che ben avevo coltivato alle medie inferiori, complici la mia venerazione per i Beatles, alcuni telefilm indimenticabili, le foto di mio fratello, ben più grande di me, scattate nei numerosi viaggi lassù e in una Londra che oggi si fatica a pensare  sia mai esistita. Lontano e icastico il Regno Unito anche nei souvenir di allora, ovvero nelle latte colorate del celebre tè inglese che oggi si produce in Polonia, nei severi e robusti kilt intessuti nelle remote isole scozzesi, e nelle collane realizzate con cuoio e cilindretti di ceramica dipinta. Li conservo ancora.

Da che conosco questa cara amica – ormai sono trentasette anni (scrivere le cifre del tempo per esteso ha un suo brivido) – quel rito è una certezza. All’epoca poteva avvenire al cinema, durante una passeggiata per la città, dopo i pranzi fuori porta con i nostri amici e con i nostri fidanzati di allora. Lei apriva e apre la borsa, dove di solito c’era e c’è un intero kit – ma sparpagliato – per ogni evenienza (dal cerotto alle gocce per i suoi bruschi cali di pressione, dalla biro che funziona in qualsiasi catastrofe, al biglietto extra del bus, al burro di cacao), ed estraeva ed estrae un sacchettino di carta appiattito con il disegno di un peschereccio.

E poi la frase, nel suo tono fermo e cortese, mentre decapita sillabe nella sua parlata veloce: “La vuoi una Fisherman’s?” Debbo dire, in tutta onestà, che non amo molto né l’anice e neppure la liquirizia, e forse queste pastiglie non mi sono mai piaciute veramente, infatti penso di non averle mai comperate. Ma le accettavo (e accetto) ogni tanto, come accade nei piccoli riti delle grande amicizie. Sì, la caramella del pescatore in fondo era bizzarra con quella sua origine negli ostili marosi del Nord, creata come conforto al mal di mare nella pesca d’altura. Effettivamente, era davvero un sapore risoluto che rimandava a terre senza sole e acque furenti. L’immaginario dell’isola britannica non mollava, questa volta grazie a un aroma che cancellava davvero tutti gli altri.

Capitano che hai negli occhi il tuo nobile destino

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Capitano che hai negli occhi il tuo nobile destino

 

Happy woman sitting on boat and looking through binoculars.

 

Natanti, spesso in euforica velocità, ogni anno tranciano la vita di chi sott’acqua è intento a osservare la vita marina, lontano dal mondo più conosciuto. Accade così di fare qualche apnea (anche molte) durante lo snorkeling, riemergere e venire falcidiati da moto d’acqua, motoscafi o gommoni.

Nascondersi sott’acqua fra anfratti rocciosi, così come sparire per un po’ nel bagliore del tramonto nuotando al largo richiede di munirsi della boa segna sub. La si lega al piede, come una condanna gentile, le si dà corda fino a far distare la boa almeno cinquanta metri dal proprio corpo. In questo modo chi governa – o dovrebbe saper governare – una barca o moto d’acqua che sia sa di doversi tenere a una distanza di almeno cento metri.

Tuttavia, l’attenzione o l’ascolto per una disposizione che tutela le parti interessate (per esempio chi governa un natante e chi pratica attività subacquea) vengono sovente recepiti nel loro complesso come totalmente ininfluenti, dando luogo a incidenti devastanti.

Eppure l’attenzione non è merce di scambio, mentre la faciloneria è una delle piaghe del nostro tempo. È il gioco oggi forse più praticato, in molti campi, quello della contaminazione dei ruoli nell’illusione di poter sperimentare tutto. Con facilità estrema, senza istruzione, senza regole, senza impegno.

Una barca a noleggio con una potenza modesta di 40 hp non necessita di patente nautica. Eppure dà l’illusione al conducente di dominare una strada fluida. Chi nuota sott’acqua o fa alcune apnee spesso invece vuole essere invisibile “a suo rischio e pericolo”, forse anche perché non gli interessano molto i capelli al vento.

Il primo si convince che nella pratica non è davvero tenuto a vedere alcun pallone galleggiare e poi al crepuscolo o con il sole di mezzodì la visuale è obiettivamente ostica. Risultato: “Che il nuotatore abbia la boa o non ce l’abbia… tanto se lo devo beccare lo becco lo stesso”. Questo sembra il ragionamento.

Ma, a scanso di equivoci, anche il nuotatore-snorkeler che non usa il galleggiante è vittima della stessa faciloneria. Perché si sente al sicuro, separato nel suo silenzio elitario che l’acqua gli dona. L’apnea, il nuoto sono un anestetico al chiasso, in una quiete fatta di bracciate accompagnate solo dalle sonorità del proprio respiro. Risultato: “Che barche e gommoni se ne vadano pure in giro a stipare e inquinare baie. Io resto qui vicino a questi scogli, libero pesce tra i pesci”. Questo sembra il ragionamento.

Purtroppo, non funziona così la libertà. E questi incidenti accadono di continuo. Forse perché non tutti i capitani hanno “negli occhi un nobile destino”, come cantava Lucio Dalla in Itaca,  o forse perché tutto deve essere solo a misura di un ego smisurato, smisurato come la superficie o la profondità del mare e dell’esistenza che si presume di conoscere.

L’altrove in una capriola

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L’altrove in una capriola

Swimming Pool, Schwimmerin, Anschlag im Ziel

 

Nel post “La chimica della gioia” vi avevo raccontato della speciale condizione immaginifica che sperimenta chi nuota con passione. Ma, da una decina di anni, è anche possibile accompagnare bracciate, apnee, vasche e snorkeling alla musica usando un lettore mp3 impermeabile su cui caricare le colonne sonore della propria vita. Banalmente pubblicizzato come ausilio per rompere la monotonia dell’allenamento in piscina, di fatto questo dispositivo arricchisce a suo modo anche l’estetica del legame tra acqua e musica.

Diciamola tutta, al mare, raramente capita di vedere qualcuno che nuota ascoltando musica. In generale chi ama nuotare se ne va al largo, cercando in solitudine la sua strada fluida. La sua strada immaginaria, dal solco lieve ed effimero. Tracciata subito prima o, a proprio rischio, dopo le boe che regolamentano quei trecento metri da riva vietati alle barche a motore.

Il lettore mp3 acquatico lo posseggo da una decina d’anni, un regalo. Lo uso spesso in piscina senza avvalermi di alcuna manualistica che propini generi musicali per regolare il tono dell’umore, o per migliorare l’allenamento. No. Decido solo io. Perché siamo io, l’acqua e il suono ad incontrarci per liberare la mente. Liberarla dall’assedio lavorativo di centinaia di dati, di centinaia di metri di parole che scorrono sul computer, dai calendari passati, dai doveri, da ogni tedio. Non ho quindi mai preparato una compilation “tecnica”. Cerco altro. Ascolto suoni a me cari, o perché regalano in velocità potenti guizzi di esuberanza, o perché generano catarsi, sì: esiste una gioia dirompente anche nell’ascolto della malinconia.

Capriole musicali. Questo diventano le virate che si compiono toccando la parete per poi riprendere la nuotata da un capo all’altro della piscina. La parete è un limite, fa parte del conteggio, ma quella capriola in musica lo sublima. Capriole meravigliose con la musica che amo. Capriole con entrambi gli Arabesque di Debussy, che sono spruzzi di note d’acqua, capriole di astrazione pura con le suite di Bach. E capriole con i suoni di autori che di esplorazioni interiori ben se ne sono intesi: Alan Parson Project, Pink Floyd, George Harrison, David Gilmour, Genesis. Capriole di parole con Paolo Conte, Joan Baez, Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini. Capriole spensierate mentre Ella Fitzgerald sghignazza con Count Basie sul palco di Montreaux in un concerto indimenticabile. Grandi nomi qui, per rendere l’idea, ma sono davvero tante le voci e le band che accompagnano le mie vasche. Spesso poco note eppure sorprendenti.

Anche in scenari mediterranei ho sperimentato capriole musicali da autentico nirvana marino, nello snorkeling fra anfratti rocciosi e archi naturali. Brani storici del sound psichedelico con cui vivere un’esperienza formidabile, in un altrove smisurato dentro e fuori di me. E di questo, a breve, in uno dei prossimi post!

La palpebra e Daniel Blake

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La palpebra e Daniel Blake

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Newcastle, nella contea inglese di Tyne and Wear confinante con il desolato e magnifico territorio del Northumberland, è una città che lavora sodo e poi si diverte ostentatamente.

Lungo il fiume Tyne si susseguono i segni architettonici della rivoluzione industriale che la vide protagonista. E luccica quel bruco d’argento, la sala da concerto disegnata da Norman Foster, dalle cui vetrate curve scegli l’inquadratura urbana che preferisci e che meglio ricorderai.

La città, bellissima nelle contrastanti sovrapposizioni storico-urbanistiche, al tramonto del venerdì rivela una repentina mutazione antropologica. Diventa una scena indiscussa dell’Io. Competizione estetica di lame di sguardi e corpi marmorei. Lusso negli abiti, vistosità di acconciature, stoffe costose. Non importa se ci sono dieci gradi, non deve esistere altro che la seta che indossi. Euforia nei torrenti alcolici che scorrono davanti ai pub, alle discoteche piazzate dove non ti aspetteresti e custodite da buttafuori giganteschi. La malinconica attitudine vittoriana degli edifici è assediata da una sorta di “Grande Bellezza” sorrentiniana.

In una dorata domenica di autunno, faccio colazione in un dehors sul lungofiume e mi lascio sorprendere dalla grazia naïf che solo i nordici riescono a esprimere ogni volta che il sole sembra proprio non voler andarsene. Beatitudine sui volti, traduzione di “ma allora oggi il bel tempo fa proprio sul serio!”. Centinaia di persone passeggiano sul lungofiume nutrendosi di luce. Il fiume e il Sage Gateshead scintillano. Ecco una spiaggia artificiale con sdraio libere, scatto una foto a una coppia che chiacchiera e ride. Mi ricordano mio padre e mia madre tanto tempo fa. Rilassati e consapevoli dei loro momenti felici.

Brevi e coraggiose zipline dal BALTIC (l’ex granaio costruito negli anni Trenta e ora prestigiosa galleria d’arte) che terminano in applausi e grida gioiose verso chi attraversa il Tyne volando con il caschetto protettivo ben calato sulla zucca. Sullo sfondo i ponti storici e il Millenium Bridge, una meraviglia ingegneristica che si solleva al transito delle barche. L’opera evoca il movimento di una palpebra (per questo motivo il ponte è noto come “Blinking Bridge”).

Ieri sera, scorrevo al computer le foto ricordo scattate l’autunno scorso. Rivedevo parti antiche della città, ma anche l’occhiolino strizzato dalla palpebra del ponte più recente, il via vai nei bar, il jogging, la maratona di beneficienza. Alcuni video mi riportano ai Dire Straits, quel mattino sparati a tutto volume davanti all’auditorium. Tutto era energia, vibrante senso di libertà, perché l’oblio della fatica deve poter essere senz’altro così.

Ma, c’è sempre un “ma”, purtroppo o per fortuna. Il vecchio mondo industriale è stato molto imperfetto. Ma almeno coraggioso se comparato a certo (non tutto, no) attuale terziario pieno di ignavia e burocrazia. E allora penso a I, Daniel Blake, l’ultimo film di Ken Loach che ha vinto la Palma d’Oro a Cannes pochi giorni or sono. Non so se mi piacerà (non tutti i film di Loach mi sono piaciuti, ma alcuni sì, moltissimo). La storia è ambientata proprio a Newcastle e racconta qualcosa di importante e scomodo, qualcosa che la cosiddetta “gentrification”, strizzando l’occhio alla barca che passa e al flâneur curioso e incantato, sa senza dubbio molto ben celare.

 

Donzelle e merletti

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Donzelle e merletti

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È davvero una gioia vederla! Cangiante, veloce e flessuosa, la ‘donzella pavonina’ colora come un nastro festoso le acque del Mediterraneo e dell’Atlantico orientale dal Portogallo all’Africa. La incontro spessissimo facendo snorkelling lungo le scogliere del mare nostrum, mentre si pavoneggia tra rocce riflessate di sole ricoperte di alghe e molluschi. Latino e greco nel suo nome scientifico (Thalassamo pavo) la definiscono per i colori sorprendenti, tutti i blu delicati del mare e le tinte chiassose del pavone, incertezza tra narcisismo e sobrietà. Il Mediterraneo è pieno di piccole creature così, che animano l’acqua come coriandoli appassionati. Li intravedi qui e là, minute sorprese.

Un altro amico ben noto, di tutt’altra attitudine, è il cosiddetto ‘peperoncino rosso’ il cui nome scientifico (Trypterigion tripteronotus) evidenzia le tre pinne dorsali. Eccentrico in quel suo ricordare un merletto, lo vedo spesso stazionare lungo grotte e tane rocciose. Ama buio e riservatezza.

Due popolari abitanti del nostro mare. Di certo non si tratta di avvistamenti insoliti da trofei fotografici, ma di questo poco importa a chi il mare lo ama nella sua totalità e non cerca guinness.

 

Costa de la Luz

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Costa de la Luz

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L’Andalusia è lo scenario di un capitolo cruciale de “La libreria dei naufraghi”. Scegliere il luogo più torrido d’Europa è stato come voler “asciugare” l’anima nordica del romanzo e dare una luce abbagliante e differente alla storia che ho scritto. Una terra magnifica, di città dalla vitalità costante e nobile mestizia, e parchi, alcuni di alture aride e nude di vento che al crepuscolo si tingono di viola. L’entroterra è solitudine punteggiata di sporadiche case, con tratti che ricordano parecchio la California. E affacciate dal cielo eccezionalmente limpido migliaia di stelle. Il magnifico parco di Cabo de Gata, brullo e severo con il litorale lambito da acque azzurrognole, trasparenti quanto insidiose, ha un concorrente, la Costa de la Luz, con spiagge estese e acque d’Atlantico inquiete. Diversi anni fa alloggiai in una sorta di bungalow molto semplice nella sua estrosità, pressoché sulla spiaggia, tra Zahora e il faro di Trafalgar. Manco a dirlo, aperto tutto l’anno. Surfisti, diver, informalità. Assoluta indipendenza, pochissima gente. Solitudine esotica fra interminabili camminate sulla spiaggia e bagni e nuoto fra onde importanti. Al tramonto si cenava a un tavolo sulla sabbia, fra generosi piatti di pesce e palmizi – come canta Paolo Conte “davanti a un mare venerato”. Sì, venerato, forse non per i suoi colori, di certo tenui,  ma per l’atmosfera autentica, lieta e piacevolmente dimessa che lo definiva. Musica suadente a basso volume, mentre sulla spiaggia qualcuno raccoglieva molluschi a riva. La sera scendeva dolcissima, rossa, estrema. L’estate sapeva soltanto di vento e di gratitudine.

Andalusia

 

Mono Lake

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Mono Lake

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Un mio lontano settembre. Mono Lake. California. Un lago salato, incastonato nella Sierra Nevada quasi al confine con lo stato omonimo. Le sponde ammantate dei gialli cespugli del “sagebrush” (Artemisia tridentata). Dolcissimo il loro profumo, e soave, blandiva la ruvida solitudine del luogo. Ruvida, nelle formazioni di lava solidificata dalle forme immaginifiche che fanno cercare somiglianze con tutte le cose conosciute. Ruvida, nell’acqua messa lì a riflettere e cancellare nel suo continuo incresparsi. E a far riflettere, con magnifica esattezza. Ruvida, nella storia dei nativi americani che diedero il nome al luogo. Panorama di bagliori liquidi.

Una lunga escursione, sotto il sole severo. Ti guardi intorno nel Mono Lake. E vedi il silenzio. Lo vedi. È dolcissimo, proprio come il profumo dei cespugli. Non tutti i luoghi naturali smisurati e insoliti emozionano così, ma per via di una vaga claustrofobia li apprezzo forse comunque. Però, qui, c’era ben altro. Sapere che in epoche lontane, forse antichissime, la Terra aveva avuto un silenzio definito. Fragrante di ambrosia.

 

La chimica della gioia

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La chimica della gioia

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Il nuoto è, per chi lo pratica con passione, una speciale condizione umana, una dipendenza, una chimica della gioia. Che cosa accade a noi nuotatori appassionati dopo numerose vasche? Massicce quantità di beta–endorfine liberate nel cervello abbracciano strette i recettori sparsi in vari punti del sistema nervoso. L’effetto è possente, dura un paio d’ore. Un processo stupefacente, nel vero senso della parola, che dà dipendenza. Lo sanno benissimo tutti i nuotatori. Felicità per me, ogni volta, raccontarlo.

Nuoto con regolarità da più di trentacinque anni e, come ho scritto altrove, non riesco a smettere. Devi amare l’acqua se ami il nuoto. Ovvietà. Ma se amerai il nuoto, imparerai presto a conoscere che cosa è veramente quell’acqua che nutre il fiume della tua città, che muove il mare e scatena torrenti e cascate. Imparerai ad apprezzare, incredibilmente, la natura artificiale della fresca acqua clorata di una piscina, anche d’inverno. E d’estate  riconoscerai l’instabile carattere del mare. Affronterai le sue improvvise variazioni di umore, come l’intreccio di correnti tiepide e freddissime sotto il tuo corpo che potranno, complice un vento improvviso, rendere faticoso il ritorno alla caletta, alla spiaggia o al gommone, mettendo a prova fiato, forza e volontà. In una parola tutta la tua linfa vitale. Che ritroverai sdraiandoti al sole e inebriandoti di luce o bevendo caffè caldo al riparo a nuotata conclusa. In una giornata di mare mosso, imparerai a tuffarti dentro le onde più alte appena si formano, sotto le creste non ancora spumose, e per quasi due ore dimenticherai di avere più di cinquant’anni. Urlerai di gioia e scherzerai con la vita come quando eri adolescente, anzi meglio di allora, perché il tempo oggi è forse davvero più tuo e ne conosci tutta la preziosità.

Esiste da sempre nella storia dell’umanità il bisogno di sentirsi altrove, passando per vari sentieri fisico–mentali. Meditativi, contemplativi, adrenalinici. Gettare la zavorra dei pensieri più pesanti e distruttivi, procedere per sottrazione del superfluo e dell’inquinante l’umore, rifugiandosi nell’astrazione, fuggendo da tutti i bisogni reali e indotti che sembrano indispensabili, per scoprire che siamo nati nudi. Ecco, quando nuoto è come se il mio corpo oltrepassasse ad una ad una tutte le barriere ingrate del tempo. Ogni guizzo è sempre di colore chiaro, la bracciata solleva solo trasparenze e mi sento tutt’una con la grazia fluttuante e fantasiosa del movimento che non pesa. Cinquanta, sessanta vasche continue da venticinque metri e mi trasformo in puro movimento mentre la mente si svuota. Le bolle si rincorrono verso l’alto e il suono subacqueo di me che respiro agisce come un mantra liquido. I pensieri si semplificano, le idee affiorano, le distanze dalla bellezza si accorciano. E poi a ogni vasca compiuta la virata, toccare la parete e capovolgersi con una capriola. L’armonia, l’equilibrio, che oggi chiamiamo con una volgare riduzione benessere e lo misuriamo in calorie, sono le mie mete natatorie.