Il mare in copertina

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Il mare in copertina

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Neil Young, On The Beach (1974)

All’epoca del vinile, il trentatré giri aveva, nello scaffale, la stessa dignità del libro. Di carta, senza contenitore rigido, ad esclusione dei cofanetti. Quella sagoma quadrata aveva la fortuna di essere grande abbastanza da essere facilmente memorizzata, e in seguito ben ricordata. Sempre in bella vista, anche quando dallo scaffale migrava per casa da una stanza all’altra. Quando prestavi un LP a un amico gli consegnavi un suono importante e insieme un’immagine che avevi già fatto tua. Il disco lo si ascoltava in compagnia, in casa. Si leggevano i titoli mentre si commentava durante l’ascolto, e tra una chiacchiera e l’altra la copertina girava fra tutti. Il brano era una traccia nascosta nei cerchi concentrici del vinile, solchi del tronco di un albero immaginario, a volte rigati e compromessi per sempre.

L’acqua non è stata, a mio parere, l’immagine preminente nelle copertine dei LP che hanno fatto la storia della musica della mia generazione. La storia delle copertine musicali è interessantissima, fatta com’è di incroci di idee, di contatti fra le persone più diverse per dare forma anche a concetti, fantasie, ideali, attitudini. E con un mercato, certamente, da voler conquistare.

Tra tutte le copertine che ritraggono il mare, questa dell’album On the Beach (1974), di Neil Young, è a mio parere, una delle più intriganti. Probabilmente perché non riesco a scollegarla dalla canzone, che considero nel suo genere un piccolo capolavoro. Il mare californiano di Santa Monica appare anonimo, potrebbe essere davvero qualunque luogo, non fosse per quella Cadillac sepolta. In una scena punteggiata di giallo, l’oceano non sembra suggerire risposte, né consolazioni a chi ci canta dell’asocialità, intesa come limite e non come scelta. Poi la fuga consapevole dalla città verso qualcosa di ineffabile, una necessità a cui non si riesce a dare un nome. E poi quel verso “Now I’m livin’ out here on the beach, but those seagulls are still out of reach” (trad. it.: adesso vivo sulla spiaggia, ma quei gabbiani sembrano ancora irraggiungibili). Ecco, i cliché restano fuori da questa poetica. Proprio come nella copertina che la rappresenta.

 

 

A bordo di Lady Catherine

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A bordo di Lady Catherine

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Isle of Harris, Outer Hebrides (2006)

 

Scheggia insulare del nord Europa, l’arcipelago delle isole Ebridi è un manto d’erba ancorato ad acque scure e trepidanti. Il cielo insegue l’inquietudine del mare ed è smisurato, incostante, si gonfia di luce e subito dopo di buio. Il traghetto Caledonian MacBrayne procedeva su acque color della cenere ed era avvolto dalla nebbia. Una nebbia graffiante, densa di particole ghiacciate che il vento spruzzava impietosamente sulle nostre facce disorientate. Le isole comparvero finalmente all’orizzonte, sagome basse che evocavano terre inesplorate e primordiali. Scure coste rocciose, muschi e licheni, i folletti non potevano essere troppo distanti.

Una volta trovato alloggio sull’isola di Harris, facemmo lunghe escursioni. Alcune spiagge erano lambite da acque sorprendentemente chiare, turchesi, sfumate. Le sabbie, bianche e fini, erano impreziosite dallo smeraldo dell’erba, soffice e umida. In un giorno di bonaccia, decidemmo per un’uscita a bordo di un gozzo di legno. Il nostro ‘capitano’, il signor Hamish Taylor, aveva avuto alle spalle una lunga storia di navigazione, era stato marconista navale e conosceva bene i mari del nord. Aveva lo sguardo entusiasta e una gentilezza che contrastava con l’archetipo del lupo di mare.

I racconti che ci avrebbe regalato sarebbero stati davvero tutti per noi, curiosi di visitare fiordi e conoscere la storia locale. Dopo un paio d’ore di placida navigazione, con un cielo sempre mutevole e a tratti minaccioso, Hamish ancorò la barca in una baia e ci offri del tè e una fetta di torta. Provammo quel piacere tutto nordico del caldo conforto in climi ostili che lui rese ancora più familiare servendoci le tazze su una tovaglia apparecchiata con cura. Parlammo di mare e correnti, ci disse che la cosa più temuta dagli abitanti delle Ebridi Esterne è la violenza del vento. Ci raccontò di come qualche anno prima una bufera aveva travolto una baia e fatto crollare un grande spuntone di roccia. Poi parlammo di foche, di salmoni, di predatori umani e marini e di leggende locali. Lungo il ritorno ci fermammo all’imboccatura di una grotta e Hamish raccolse un’alga con il gancio d’accosto e me la fece assaggiare. La mia prima alga fresca di mare. Non era buona né cattiva, ma era raccolta nella solitudine delle acque più profonde, e questo lo rese uno speciale frutto della parte liquida della Terra.

La nostra uscita si concluse in una baia piena di foche. Questi animali visti da vicino, nel loro habitat, trasmettono una serenità infinita. I loro occhi bui e un po’ desolati sono un invito alla dolcezza del contatto, la loro riservatezza non scontrosa un anelito di grazia in questi mari tristi e ostili.

 

Il comune fraintendimento del pudore

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Il comune fraintendimento del pudore

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Dal film “Il gladiatore”: l’imperatore Commodo decide la sorte del gladiatore Tigris.

Capita che, nel corso di qualche chiacchierata fra amici, il social network più usato del mondo non manchi di essere definito una latrina verbale globale, un pollaio rissoso, una pura evasione senza costrutto. E, a lungo andare, un generatore di emozioni che – come una centrifuga di ultima generazione – produce il suo nettare a buon mercato per l’autostima, fatto di consolazioni a sorsate di “mi piace”.

Attraverso la bacheca si afferma dunque la propria esistenza, l’esserci qui e ora. Ma anche la propria attitudine tragica o ironica con la quale si osserva il mondo. Il livello di dopamina nel cervello pare abbia un buon incremento grazie ai “mi piace” ricevuti in apprezzamento ai post, siano essi non solo opinioni personali specifiche ma anche l’album delle vacanze, una foto celebre, un micetto giocoso, o quella citazione di icone cinematografiche o letterarie sempre così attuali, per non parlare del dolce al cioccolato alla cui preparazione si è dedicato l’intero pomeriggio domenicale, o della incessante trascrizione della propria variazione umorale giornaliera.

Dunque, dimostriamo di esistere, di essere vivi (felici o infelici, malmostosi o frizzi&lazzi, idealisti o rinunciatari, dubitativi o supponenti), con il rischio però che ogni nostra azione – di condivisione, di apprezzamento o non apprezzamento (“mi piace” o nessun commento) – sia oggetto spesso di fantasiose interpretazioni concentrate più sull’intenzionalità che sui contenuti. Perché Facebook, non è quasi mai un diario fra amici, non è un luogo di confronto e discussione, ma è un’arena globale gratuita, dove ci sono spettatori che urlano a più non posso dagli spalti, fiere tenute a lungo digiune che mostrano denti affilati, e gladiatori che aspirano alla gloria del momento.

Uno fra i più autorevoli dizionari della lingua italiana definisce il secondo significato della parola pudore in senso estensivo come “imbarazzo a esibire la propria interiorità”. In un pianeta afflitto da una sempre più pervasiva (e patologica) platealità digitale, provare quell’imbarazzo non deve sempre apparire dunque così detestabile, né tanto meno incomprensibile o privo di fondamento. E forse andrebbe proprio riconsiderato, per restituire alla vita reale la sua autentica potenzialità, cercando di mantenere alto il livello di dopamina anche nell’esistenza non virtuale dove si perde senz’altro più spesso, ma dove la propria interiorità non è panem et circenses e vale di più di un pollice alzato.