Questione di luce

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Foto di Guido Dacomo (Giugno 2019)

Ogni paese ha fatto della rappresentazione della luce anche il suo cantuccio simbolico. La sorgente che illumina visi circondati di buio ha sempre veicolato messaggi e stimolato pensieri di meditazione, redenzione, predestinazione, esattezza, evidenza. La storia dell’arte occidentale ne trabocca, quella letteraria pure.

Qui siamo nel Vietnam del Nord, al confine con la Cina, in una casa del popolo, una foto scattata da mio fratello nel corso di un recente viaggio. La composizione è pur sempre nel solido tracciato di una tradizione, ma la fonte della luce, a ben guardare, non è una lampada a petrolio o una candela bensì un display di cellulare, come per altro è stato confermato dall’autore della foto. Tutto è immerso nell’oscurità, ma la luce è solo mediatica.

Con la post-produzione si potrebbe falsificare il bagliore del display e trasformarlo in una fiammella naturale, confermando così un venerato e affezionato modo di intendere l’Oriente tutto, celebrando un esotismo che l’Occidente ha spesso omologato a suo uso direi quasi mitologico. Preferiamo spesso l’esotismo fotografico alla realtà, e cerchiamo conferme in immaginari rassicuranti proprio perché anacronistici.

L’isola che ci sarà


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Isola di Sifnos (giugno 2019) Foto di Silvia Dacomo

 

Basta cambiare le parole. Al nome di un noto luogo geografico associamo immagini che si proiettano e dilatano nella nostra mente occupandone per un istante tutto lo spazio utile di memoria. Queste immagini sono composte per gran parte da ciò che di questi luoghi è già stato molto detto, fotografato, pubblicizzato, filmato, dipinto. Cartellonistica che inventa suggestioni. Che finiscono, tuttavia, per definire i luoghi in modo univoco, sottraendo ad essi parte della loro specificità umana, culturale e ambientale. Le isole Cicladi, dove ho trascorso tra fine maggio e giugno le vacanze, sono esemplari per una riflessione sull’argomento.

Se qualche immagine la parola “Cicladi” ha veicolato nel corso degli ultimi quarant’anni è sicuramente quella di casette bianche e azzurre, libertà, quiete, cupole color zaffiro, edonismo sfrenato (in almeno un paio di esse), mare cristallo, anziani al bar che giocano a backgammon e sgranano komboloi. Tutto questo, tutte queste immagini di per sé veritiere possono far posto a nuovi disegni, nuove connessioni tra parole e rappresentazioni. Lo sforzo è quello di uscire dalla comfort zone rassicurante di quel riassunto visivo del meglio che il paese può offrire. Occorre uscire ogni tanto dalla logica qualità-prezzo applicata al viaggio, quella sorta di “devo vedere il meglio e il più tipico perché ne valga davvero la spesa”.

Recentemente sono ritornata in vacanza all’arcipelago dopo sedici anni, e ho visitato isole che, a parte Naxos, non conoscevo. Amo il senso di libertà totalizzante nel viaggiare di ferry in ferry, sempre verso nuovi litorali, nuovi entroterra, nuovi borghi aggrappati alle alture e alla luce.

Le pennellate del mare rincorrono il biancore delle case quasi ovunque alle Cicladi. Ma esistono tante altre parole su cui dipingere immagini. Parole che rintracci nel paesaggio, nella cultura materiale, nella storia.

Piccole isole come Tinos, Sifnos, Amorgos offrono vedute in realtà che si fanno spazio facilmente fuori dall’immaginario balneare. In tarda primavera, sono isole con entroterra di coloratissimi fiori e arbusti rosso rame. Ecco poi nuove parole. A Tinos, la parola è “colombaia”. Architetture di origine veneziana, le colombaie spuntano inaspettate, come spessi ricami di lino fra i verdi pendii terrazzati. Edifici particolarissimi, con ornati semplici, ripetitivi, regolari. Che fanno pensare a geometrie facili per scandire il tempo, per trattenere qualcosa dell’universo, fanno pensare alle scacchiere, all’arte primitiva. Un’altra parola è “lunetta”. Le lunette sono quei motivi di marmo realizzati a mano che sormontano gli usci. Quando il meltemi soffia arrabbiato costringe a tenere le imposte chiuse, ma dalla lunetta il vento trapela risuonando di frescura. Frescura all’interno delle case, ecco un altro immaginario. A Sifnos esulta invece la parola φλάρος. I flaros sono i curiosi copricamini in terracotta, per proteggere il camino dalle piogge e dal meltemi, e ogni flaros è orientato e forato diversamente a seconda della posizione della casa. L’isola di Amorgos è storicamente un luogo di esilio, e questa parte della sua storia sembra scorrere come la linfa sotterranea del paesaggio. Il mare qui spesso te lo devi guadagnare, non è sempre semplice raggiungere le cale se si escludono appena un paio di minuscole spiagge a ridosso del villaggio di Katapola. Famosa per il monastero Παναγία Χοζοβιώτισσα che sembra essere nato sulla parete rocciosa a cui si aggrappa riservato e bianchissimo, Amorgos lascia senza fiato. Di non solo mare e sabbia e case con le porte azzurre vivranno gli occhi qui, ma di lento vagabondare, di colline severe lambite da un mare anche molto scuro e rocce a precipizio. Di grotte raggiunte a nuoto, ricoperte di madrepore, di coralligeni rosa, arancioni, malva e vive di acque fosforescenti. Un’altra parola è “lavoro”. Molti lavoratori, ben oltre i cinquant’anni, da Atene raggiungono le isole per svolgere lavori stagionali. La crisi ha messo al tappeto famiglie, sicurezze, il “dato per scontato” su cui si costruiscono beati sonni. E riesci ad avere la piena consapevolezza delle conseguenze esistenziali che la crisi ha avuto conversando con le persone. Tutti raccontano con grande passione della propria vita, in qualche modo.

Vale sempre il viaggio quando ascolti parole nuove. Vale il viaggio, ogni volta che un’immagine unica, tua soltanto, si aggancerà a un luogo di cui si è molto parlato, e riempirà per un istante tutto lo spazio utile di memoria.

 

 

Campeggio libero

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Foto di Bruno Cicciarello

Quei cieli larghi si ammantano spesso di nuvole veloci, dai contorni poco delineati che scoloriscono il blu. La vecchia casa su due ruote restituiva, con quella luce, un particolare colore all’abbandono, e muoveva una fantasia in quella vastità in cui sembrava, di colpo, atterrata un’epoca. Saranno stati viaggi e poi permanenze definitive. Saranno state scelte.

Nel vento vibravano suoni metallici, ma anche le sterpaglie sussurravano. Nella lontananza alitava ancora tutta la vita che era stata. C’erano stati dei giovani in quella vita. Intorno al fuoco, le loro parole si erano sollevate libere nella notte, come alfabeti sfuggiti finalmente a tutte le gabbie del mondo.

Discussioni meravigliose, che avevano fermato il tempo. E poi risate che raggiungevano il mare. Era una vita lontana che a qualcuno era appartenuta.