Il comune fraintendimento del pudore

Il comune fraintendimento del pudore

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Dal film “Il gladiatore”: l’imperatore Commodo decide la sorte del gladiatore Tigris.

Capita che, nel corso di qualche chiacchierata fra amici, il social network più usato del mondo non manchi di essere definito una latrina verbale globale, un pollaio rissoso, una pura evasione senza costrutto. E, a lungo andare, un generatore di emozioni che – come una centrifuga di ultima generazione – produce il suo nettare a buon mercato per l’autostima, fatto di consolazioni a sorsate di “mi piace”.

Attraverso la bacheca si afferma dunque la propria esistenza, l’esserci qui e ora. Ma anche la propria attitudine tragica o ironica con la quale si osserva il mondo. Il livello di dopamina nel cervello pare abbia un buon incremento grazie ai “mi piace” ricevuti in apprezzamento ai post, siano essi non solo opinioni personali specifiche ma anche l’album delle vacanze, una foto celebre, un micetto giocoso, o quella citazione di icone cinematografiche o letterarie sempre così attuali, per non parlare del dolce al cioccolato alla cui preparazione si è dedicato l’intero pomeriggio domenicale, o della incessante trascrizione della propria variazione umorale giornaliera.

Dunque, dimostriamo di esistere, di essere vivi (felici o infelici, malmostosi o frizzi&lazzi, idealisti o rinunciatari, dubitativi o supponenti), con il rischio però che ogni nostra azione – di condivisione, di apprezzamento o non apprezzamento (“mi piace” o nessun commento) – sia oggetto spesso di fantasiose interpretazioni concentrate più sull’intenzionalità che sui contenuti. Perché Facebook, non è quasi mai un diario fra amici, non è un luogo di confronto e discussione, ma è un’arena globale gratuita, dove ci sono spettatori che urlano a più non posso dagli spalti, fiere tenute a lungo digiune che mostrano denti affilati, e gladiatori che aspirano alla gloria del momento.

Uno fra i più autorevoli dizionari della lingua italiana definisce il secondo significato della parola pudore in senso estensivo come “imbarazzo a esibire la propria interiorità”. In un pianeta afflitto da una sempre più pervasiva (e patologica) platealità digitale, provare quell’imbarazzo non deve sempre apparire dunque così detestabile, né tanto meno incomprensibile o privo di fondamento. E forse andrebbe proprio riconsiderato, per restituire alla vita reale la sua autentica potenzialità, cercando di mantenere alto il livello di dopamina anche nell’esistenza non virtuale dove si perde senz’altro più spesso, ma dove la propria interiorità non è panem et circenses e vale di più di un pollice alzato.