Beatty, Nevada.
Resistete. Non cercate Beatty su Google Maps, almeno per il tempo di lettura di queste righe. Provo a raccontarvelo. È un insediamento di minatori e agricoltori a mezz’ora di auto dalla Death Valley (California). È anche un luogo di tappa, se le strutture ricettive del parco sono al completo. Ci sono stata di passaggio alla fine di ottobre. Certe volte è come se mi trovassi ancora là.
Le abitazioni sono per lo più trailer home, e si avvista anche qualche casa costruita in pannelli di fibre di legno. Ce n’è una senza neppure il rivestimento, è di fatto una casa di compensato, il non finito della desolazione economica. Il giardinetto roccioso che la circonda, pieno di attrezzi da lavoro arrugginiti, è però il giardinetto della rivincita esistenziale curato com’è, abitato da pupazzi e animali in legno, forse costruiti da chi ci abita. Improbabili e kitsch, esprimono un desiderio irrefrenabile di vita, di bellezza a loro modo, di rimozione immaginaria della solitudine. Facciamo la provvista di acqua da tenere in macchina nell’unico supermercato della catena Family Dollar i cui giganteschi metal detector sono ricoperti di veli e teschi in vista di Halloween. Ci sono tonnellate di merci, e di offerte speciali, ma il supermercato è vuoto dell’umanità che imbraccia carrelli. La ragazza alla cassa trasmette dal suo sguardo tutto il blues che è stato composto nella storia. Anche se lei è bianca, molto giovane e i suoi occhi azzurri sono stretti in un viso gonfiato dal cibo spazzatura o dall’ingratitudine dell’amore.
A cena evitiamo i posti ristoro delle grandi catene e andiamo in un locale che trabocca di storia locale, scritte buffe e naturalmente. Anche lì zucche e fantasmi ovunque. Ordiniamo due chili e due birre, e la cameriera ci chiama “Honey”. Il chili è meraviglioso, con le spezie ben calibrate e il gusto della buonissima carne non è trucidato da condimenti assassini. Si avvicina un anziano cowboy che fa l’agricoltore e nel tempo libero promuove spettacoli country organizzati dalla associazione locale di cui fa parte, tutti amici del posto che si divertono un sacco a suonare dice. E ci informa del concerto dell’imminente fine settimana.
“Grazie ma venerdì non ci saremo, siamo qui solo di passaggio, un viaggio lungo”, “Capisco e dove state andando?” ci chiede cordiale, con la mano sempre appoggiata alla fondina del suo abito western, “Siamo tornati qui dopo tanti anni, e visiteremo di nuovo la Death Valley”, “Ah, be’ allora sapete già che dovete portarvi sempre dietro un sacco di acqua, i ranger non insistono mai abbastanza… lo sapete che ogni tanto raccolgono qualche viaggiatore… ne hanno trovati morti altri due, l’auto li aveva mollati in mezzo al niente non so dove e il cellulare non prendeva. Invece quest’estate altri due si sono salvati, ma solo perché hanno incendiato la ruota di scorta di notte per rendersi visibili. Se vi capitasse di rimanere in panne di giorno, state dentro l’auto… qualcuno vi troverà” dice scrollando le spalle. A quel punto io chiedo “Ma che differenza fa un po’ di lamiera, tanto l’auto diventa un forno, c’erano 53 gradi Celsius là fuori otto anni fa, me lo ricordo bene”, lui mi guarda disincantato poi aggrotta le sopracciglia e dice “Be’, il tetto dell’auto è pur sempre un tetto, e comunque è meglio che niente! E, for God’s sake portatevi degli snacks”. Disegnatevi nella mente un uomo dalla corporatura imponente, baffuto, in una vignetta tipo western, nel fumetto fategli dire “snacks”, e accentuate parecchio la pronuncia, e poi voltatevi, come noi due abbiamo appena fatto. Alle nostre spalle c’è una saletta con il bancone bar, gestito da una vecchia signora (la moglie del cowboy) che spilla birre e bourbon. Ci avviciniamo al bancone e paghiamo la cena. E seduta al bancone c’è lei.
Sotto un cappello azzurro da cowgirl, c’è quel volto lì, quello che vedete nella foto. Segnato da quasi tutto. Argenti di bella foggia alle dita, unghie curate ma senza smalto, una camicia fantasia, ai piedi calzettoni e sandali. Fuma e ha lo sguardo sornione e rappacificato con l’esistenza. Ci osserva e beve un sorso. “Abbiamo notato stando in giro che in America ormai ci sono divieti ovunque, qui invece fumate senza problemi”, le domanda con una risatina lui avvicinandosi alla cassa. “Ma da dove arrivate voi due?” chiede lei, “Da San Diego”. A quel punto la donna alza il bicchiere in segno di brindisi e dice con la voce che slitta su una risata grattata di nicotina “You know… guys… You’re in Nevada now, not in California anymore”. Siete in Nevada ormai, ragazzi, mica in California! Il suo orgoglio è al massimo. Si presenta, si chiama Janis. Poi mi dice “La tua felpa è molto bella”, “È low cost” rispondo, “Low quanto?” chiede lei, “Low 20 euro”, le facciamo un’approssimativa conversione in dollari. Ok, non le pare troppo. Pizzica un pezzo di tessuto tra indice e pollice e dice “Cavoli, è veramente bella” e io le dico “E a me piace molto il tuo cappello”, lei fa una risata e se lo sistema, si sposta i capelli ai lati. Poi mi chiede “Ma che ne pensi, ti piace questo villaggio?”. Se dicessi “interessante” mi sentirei vigliacca. ‘Interessante’ talvolta è l’aggettivo dell’ipocrisia, dico “Sì mi piace”, perché forse è la verità, perché è un posto assolutamente pazzesco. “Di cosa vive la gente qui?” domando, “Di miniere, di agricoltura, di qualche viaggiatore che ci fa una tappa prima di rimettersi in marcia per chissà dove” poi ci guarda tutti e due e chiede “Non lo trovate bellissimo?”, mentre il suo entusiasmo fa a pezzi la sua fragilità. Risposta affermativa di entrambi. Si volta verso la proprietaria dietro al bancone e le dice “Ma hai sentito? Hai sentito? A loro piace questo posto, a loro che arrivano dall’Italia!”. E io consapevole del fatto che sto senz’altro per fare una domanda ovvia le chiedo “Janis, ma a te piace questo posto, ti piace vivere qui?”, “Tantissimo, mi piace sempre anche quando nevica! Sai è bellissimo anche a Natale, noi ci conosciamo tutti qui, siamo tutti amici, ci aiutiamo e questa signora – dice indicando la proprietaria dietro al bancone – e suo marito la notte di Natale mettono sul tavolo laggiù un piccolo regalo per ciascuno di noi. È una cosa incredibile oggi come oggi sentirsi considerati così”. La proprietaria dietro al bancone sembra intenerirsi per una frazione di secondo, è una sfumatura, è la versione femminile di Fat Moe che in Once Upon a Time in America, C’era una volta in America impacchetta il pasticcino, la Charlotte russe, per Patsy Goldberg. Continua a trafficare trafelata con birre e bicchieri e poi si prende una pausa e finalmente ci sorride e io a quel punto chiedo se posso scattare loro una foto. Certo, che domande! Non chiedo un sorriso da cartolina, non ce n’è bisogno. Fuori dal locale ascoltiamo la gente chiacchierare, non di baseball, ma del villaggio. È la fine della giornata per i lavoratori di Beatty, Nevada.
Il giorno dopo, facciamo colazione in un vecchio diner dipinto di azzurro. Amo i diner (stanno sparendo, non è una novità), e come la maggior parte dei diner, anche questo trabocca di calore, se calore significa non sentirti mai a disagio ad attaccare discorso con i vicini di tavolo, se significa essere in un locale le cui pareti non si sottraggono alla narrativa del luogo con qualche targhetta in metallo, poster popolarissimi, fotografie paesaggistiche scolorite, qualche articolo di giornale incorniciato, se significa cibo semplice servito in piatti non di plastica. È lì che conosciamo Jim, che dopo due parole ci invita a trasferirci al suo tavolo. Un ottantaquattrenne dell’Oregon che ha lavorato per una vita come muratore specializzato. Che ci fa a Beatty, gli chiediamo. Viaggia in camper con sua moglie! Non gliene importa nulla se ha ottantaquattro anni, lui viaggerà con lei fin che ce la farà. Ma dove vanno? Un po’ dappertutto. E cita diversi stati che non sono propriamente confinanti. Macinano migliaia di miglia, vedono cose bellissime. Eloquio brillante, ironia da spacciare, ci chiede dell’Europa. Di madre londinese, lui in Europa non c’è mai stato e ridendo conferma che non ci andrà mai, gli piace essere realista dice. “Mia moglie, be’… la lascio dormire, preferisce alzarsi un pochino più tardi, sapete… l’età”. Intanto ordiniamo le colazioni, noi si va di pancake e caffè ovviamente, lui ordina un piatto combo con omelette di verdure soffritte e cereali. Ci chiede quali siano le nostre prossime mete. Gli stati sul Pacifico sono tra i più progressisti, la politica la decidono California e New York, in mezzo è come se a volte non ci fosse niente, asserisce, mentre la cameriera ci versa forse per la terza volta infinito caffè. Scopriamo che è un avido lettore di fiction, ed è dispiaciuto di non conoscere altre lingue oltre all’inglese. Non ha avuto tempo di impararle dice, troppo lavoro e quattro figli. Ama viaggiare in America in assoluta autonomia, dopo tutto, dice, è facile viaggiare qui anche da vecchi, e poi a lui i viaggi organizzati non possono proprio interessare. Ci offre la colazione, insistiamo per il contrario ma non c’è verso, “Benvenuti in America allora, anche questa volta come tutte le vostre altre!”, dice afferrando il conto. Possiamo fare una foto? Ma certo che domande!
Beatty, Nevada. Incrocio di esistenze, lontane, lontanissime dai confini dall’Ego.