Alcune settimane fa, capita una cena tarda con un paio di vecchi amici in un posto ristoro di solito molto affollato, ma comodo per la zona in cui ci siamo dati appuntamento. Chiedo un tavolo, se possibile in una parte più tranquilla del locale. Ci propongono di prendere posto al piano superiore dove – mi auspico – sarà possibile conversare senza farci schizzare l’ugola fra dirimpettai di tavolo in quei cinquanta centimetri che ci separano gli uni dagli altri. Al piano superiore, in effetti, tutto sembra tranquillo, pochi i tavoli occupati. Ma non badiamo allo spazio giochi per i bambini dal quale giungeranno grida scanzonate sempre più incontrollate. Seguiranno corse di gnomi indemoniati e inconsolabili piagnistei di altre creaturine sedute al seggiolone.
Alle spalle degli amici che mi stanno di fronte al tavolo, troneggia un monitor gigante che trasmette cartoni animati giapponesi. Si avvicendano volti rabbiosi dai capelli colorati, mostri palliformi di una bruttezza mai immaginata (ma forse sta qui il genio?). Odio e vendetta e grida, immagini fisse su sguardi e occhi senza storia. Poi una carica violentissima di animali fantasiosi ma banali nella loro informità. Infine una principessa bionda che osserva con rancore ogni cosa mentre agita i pugni in aria fino a che una sola, grande lacrima di rabbia scende lenta, malgrado tutto, dai suoi tondi e scontati occhi blu. Urla, e poi ancora urla.
La rappresentazione del dolore e dell’odio è anche catartica, certo, altrimenti faremmo a meno di buona parte della letteratura e del cinema. La rappresentazione sdolcinata e umanizzata degli animali è solo una proiezione del nostro ego, certo. Rifletto, scongiurando se posso il paternalismo. Quand’ero bambina alla tele trasmettevano una serie animata che si chiamava Filopat e Patafil di produzione della Germania orientale, due pupazzi longilinei e flessibili le cui storie avevano una colonna sonora diciamo “sperimentale” che vi invito ad ascoltare su YouTube. Erano di una noia mortale, e nonostante ciò piacevolmente assurdi tanto da stupire. Mia madre nella sua intelligenza ironica mi diceva “Sono solo una cosa diversa da Disney, tutto qui”. Di certo quei personaggi erano per me il lato tristissimo del cartone. Preferivo Tippete (o Thumber) il coniglietto di Bambi. In età adulta ho preso una coniglietta vera, girava per casa, si chiamava Tappo, non Tippete, ma era simpatica come lui. Mai vergognarsi della tenerezza.