“La zona di interesse” e la foresta eterna

La zona d’interesse è la narrazione della vita quotidiana del comandante Höss e della sua famiglia nella villetta confinante con il campo di sterminio di Auschwitz che lui stesso diresse e ampliò introducendo l’impiego nelle camere a gas dell’acido cianidrico (Zyklon B) con lo scopo di velocizzare lo sterminio di massa.

Come è noto, nel film di Jonathan Glazer la violenza non è mai esplicita ma unicamente rappresentata dai suoni ininterrotti provenienti dal campo, ossia dall’altra parte del muro che separa l’orrore dalla quieta vita familiare del comandante: urla, comandi, latrati canini, sferragliare di treni, colpi di arma da fuoco e il rumore di fondo dei forni crematori.

La pellicola riesce a scalfire nel profondo, fino a scavare una desolazione interiore in un crescendo angoscioso a tratti insostenibile. O meglio, la mia sensazione è stata precisamente questa, nonostante i numerosi film visti sul tema, talora cruenti, nonché alcuni documentari storici particolarmente strazianti. Per non citare i libri, fra cui l’opera teatrale L’istruttoria di Peter Weiss che ritengo un caposaldo assoluto.

Eppure, questo film è un’esperienza altra per lo spettatore rispetto a tutto quanto (di storico o artistico) sia stato proposto sull’Olocausto.  È l’esperienza di un altro vuoto. È il vuoto dopo l’ascolto di dialoghi insulsi relativi all’arredo di casa, ai pettegolezzi, ai desideri di viaggio, agli oggetti sottratti ai prigionieri, alla reificazione dei prigionieri mentre sullo sfondo il fumo della ciminiera diventa scuro di morte e il fumo del treno a vapore segna l’arrivo del carico delle prossime vittime.

Nessun primo piano, ad eccezione di una momentanea inquadratura di profilo del gerarca nazista contro il cielo nebbioso e fumoso. Nessun approfondimento psicologico affidato ai dialoghi. Nessun atto efferato visivamente rappresentato. Le uniche tracce di sangue visibili appaiono sul fondo del lavatoio durante la sciacquatura degli stivali di ordinanza.

Gli interni della villa ricordano una vecchia casa delle bambole in cui tutto è utile, delizioso, fresco e ordinato. Un equilibrio soave fra le tinte pastello e il bianco immacolato di tovaglie, lenzuola, infissi. Un richiamo ai colori del giardino, amorevolmente curato dalla moglie del gerarca. Giardino che è al contempo luogo di relax, di nomenclatura botanica e di narrazione orgogliosa del giardinaggio stesso. La casa con il suo prato fiorito e coltivato e una piccola vasca incarna il sogno che la coppia aveva perseguito sin dalla gioventù, come si apprende da una conversazione fra i due, ossia possedere un’abitazione nel cuore della natura per vivere lontano dalla città. E fare poi piacevoli gite nel bosco a due passi da casa, dal fiume, dalle radure incantevoli.

La rappresentazione della natura rasserenante e bucolica – presente in diverse scene del film che narrano le escursioni, la pesca, il riposo nelle radure, le uscite in canoa – è d’altronde stata parte della propaganda nazista in vari connubi quali natura e salute, natura e bellezza, natura e classicità e così via. Ed è stato il paesaggio a essere stato trasformato in orgoglio identitario in linea con la celebrazione della vita contadina e della razza. Nel film le scene ambientate nei boschi, sulla riva del fiume, nelle radure mi pare possano essere più affini ad alcune opere di Ludwig Dettmann che ad altri dipinti di artisti del Terzo Reich che costruirono la propaganda attraverso opere paesaggistiche di carattere impressionista. Si pensi del resto al cinema nazista la cui produzione oltre alle opere di propaganda antisemita, incluse film come Ewiger Wald (foresta eterna) in cui la foresta è il popolo tedesco che rimane tale, cioè eterno come i suoi boschi, dalla preistoria all’era del nazionalsocialismo. Le danze di leggiadre ragazze che si tengono per mano ballando in cerchio sono le stesse presenti anche nei filmati propagandistici della Hitler-Jugend.

La promozione dell’immagine bucolica del paesaggio era parte della macchina del consenso nazista, esaltando la sacralità della natura, aspetto per altro molto presente nel Romanticismo tedesco e nella cultura germanica più antica. In realtà, con la seconda guerra mondiale, l’industria bellica prese il sopravvento sul paesaggio e su quel tipo di retorica sfruttando ampiamente il territorio.

Nel film, l’idea che la vita per essere ben vissuta necessiti di essere trascorsa in un ambiente verdeggiante (e che il giardinaggio sia frutto di una orgogliosa fatica da esibire) si inscrive in un atto di superiorità morale: saper nominare la botanica è saper distinguere, andar per boschi rende sicuri e affrancati. E soprattutto puri. La moglie del gerarca spera che le piante ricoprano presto il muro di separazione dal lager e la visuale sugli edifici del campo. La folle purezza coltivata dal nazismo rielaborava anche elementi ben presenti nella venerazione della natura. La metafora della natura nel film può essere letta come quella di un elitarismo agreste, pericoloso e squilibrato che rimuove il mondo come non necessario, meglio se inesistente.