Lo scenario dell’ultimo film di Alex Garland è quello di una immaginata guerra civile, tra il governo federale e alcuni stati separatisti, ambientata negli Stati Uniti ai giorni nostri. Con un presidente al terzo mandato (impossibile nel sistema politico americano) e autocrate. In questo inferno, due navigati fotoreporter, motivati da ragioni esistenziali differenti, si spostano con un fuoristrada insieme a un anziano giornalista decisi a raggiungere Washington per intervistare e fotografare il presidente degli Stati Uniti. A loro si unirà Jessie, una giovanissima fotografa.
Il film è la rappresentazione fedele e tecnicamente ineccepibile di una guerra civile attualissima, combattuta con tecnologia soverchiante, in cui il fotoreporter insegue i combattenti riprendendo attimi di difesa, perfidia, resa, follia e spietatezza in un conflitto nutrito dall’insensatezza politica. Ma, oltre a una lettura sociopolitica foriera di significative riflessioni sul nostro presente, esiste anche un altro punto a mio avviso interessante, ossia che i protagonisti armati di obiettivo consegnano una cronaca fotografica in bianco e nero feroce e qualitativamente perfetta perché innescata da una sfrenata e complessa ambizione che farà i conti con la follia dei combattenti, non meno sfrenata.
Per Joel fotografare è adrenalina pura e forse una scommessa violenta, per Lee matura e famosa reporter che ha iniziato giovanissima alla Magnum è una sorta di atto dovuto, un impegno fattosi ormai psicologicamente insopportabile, per la ventitreenne e inesperta Jessie è aspirare candidamente alla grandezza dei celebri fotografi di guerra (come Lee stessa) e a una professione eroica senza tuttavia rendersi minimamente conto di che cosa significhi scattare raffiche di istantanee in un bagno di sangue. Per Samuel, l’anziano giornalista, è una sfida nutrita dell’ultima saggezza che egli sente di poter trasmettere ancora ai più giovani.
Se la tragedia della guerra, ricorrente e simultanea in varie parti del nostro pianeta, è il tratto portante del film, così come lo sono le dinamiche di un conflitto civile vastissimo (e forse proprio ipotizzabile negli Stati Uniti attuali), il centro letterale e metaforico di Civil War è la fotografia. La fotografia come responso di verità, documento non effimero, testimonianza tanto più affidabile quanto più è alto il rischio di vita incorso dai fotoreporter che vivono dentro l’inimmaginabile. Testimonianza altra rispetto a quella ricevibile da qualsiasi corrispondente seduto a una scrivania design con alle spalle la vetrata su una grande metropoli illuminata.
Ecco, è un’idea forte della fotografia, un’idea oggi molto svilita, laddove il dubbio sull’autenticità delle immagini tende a teorizzarsi con forza supportato da ipotesi complottiste. Ma come dovrebbe essere ben noto, ma purtroppo non lo è, la fotografia è sempre stata falsificabile, ma il film va oltre tutto ciò. Ossia mostra la nascita e la potenza dello scatto, non la sua rielaborazione.
E proprio nell’attimo dello scatto che il regista ci spiega come coesistano tensione professionale e interiorità: c’è la tecnica e insieme ad essa intuizione, coraggio, compassione, viltà. In effetti, nel film l’estetica dello scatto, per quanto citata, si accompagna a una ragione assai più intima e profonda che è il legame tra il reporter e la vita o la morte stessa. Il film ci indica che non può esistere una “moralità” dello scatto, laddove il fotografo vive l’orrore come un privilegio che lui solo è riuscito a catturare. Grandi ambizioni, grandi prezzi. E grandi contraddizioni.
Nel sapere rendere tutto questo, gli attori sono straordinari. Tutti. Un film immenso.