Perché viverci non significa necessariamente viverla

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Perché viverci non significa necessariamente viverla

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C’è tutto un “evviva!” per il verde metropolitano e collinare. Tutta una narrativa in linea con il rilancio di stili di vita naturali, orti pensili, aree verdi comuni nei cortili, cohousing in vecchie dimore (dalla vecchia catapecchia ristrutturata con sacrifici e dedizione alla magione storica del più o meno granoso possidente).

In collina ci vivo, alcuni chilometri dal centro città. In un piccolo condominio degli anni Cinquanta, con un giardino in comune (sconnesso e campagnolo, senza irrigatori – nessun prato stile campo da golf per intenderci) e diversi alberi da frutto. Un rio vi scorre accanto. Da qui, si snodano sentieri della rete escursionistica comunale. Al mattino presto e dopo il lavoro, o nei weekend, faccio spesso camminate nei dintorni, anche lungo le stradine asfaltate a zero traffico. Scarico fatica, pensieri, libero la vista che fra carta e monitor viaggia per lavoro su strade a lunga percorrenza di parole ogni giorno.

Di solito non incontro anima viva, raramente qualche jogger o qualche cane con padrone al seguito. E di solito, nei weekend i bipedi che compaiono sono per lo più ciclisti che arrivano dalla città. Ne deduco che il verde, per la maggior parte dei residenti, è soltanto un paesaggio che riempie la cornice di una finestra, è un esilio visivo che, in qualche modo, deve stare oltre il vetro. Basta che ci sia silenzio e vuoto automobilistico.

D’inverno, la neve qui cade ben più abbondante che in città. C’è un breve sentiero senza luci a due passi da casa: innevato è spettacolare. Eppure non ho mai visto nessuno camminare in mezzo a questa bellezza.

In tutte le stagioni, evidentemente, della casa si preferiscono le quattro mura, si esce solo per portare a spasso il cane: ragazzi, bambini e adulti tra computer e aria aperta hanno già scelto il primo.  Trenta anni fa anche qui era diverso, mi raccontano le persone che ci sono nate: ragazzi in slitta, bambini che giocavano ovunque, gente che passeggiava per sentieri, che raccoglieva frutti di bosco e funghi. Meno recinzioni. È solo un quadro naïf? Può darsi, ma accadeva, non sarà perché forse c’era meno narrativa social e più partecipazione?

Osservare a tempo perso che cosa accade di micro vite su cinquanta centimetri quadrati di prato, uscire nel bosco nelle sere di giugno per conoscere la fantasmagoria delle lucciole fra i voli silenziosi dei gufi, avvistare i cuccioli di scoiattolo (qui ce ne sono ancora di rossi) che si rincorrono sui tronchi, seguire le poiane che volteggiano al tramonto, e poi tassi, volpi, cinghiali, cinciarelle. E poi? La ricerca di more, ribes, fichi.

A conti fatti, tutto questo forse interessa realmente a ben poche persone che abitano il verde. Perché viverci non significa viverla, la natura. Presunti spiriti naturalistici che “stanno” su Youtube oppure ai vetri di Windows, o dietro la cornice della propria finestra, da quando il panorama è diventato principalmente una delle tante cose di questo pianeta da “usufruire”, e che ha creato, tra l’altro, anche un bel valore di mercato. Appassionati che non conoscono il profumo che ha il mattino e la notte in collina. Anche se ci abitano. Che peccato.

Nota*: foto scattate l’altro ieri durante una passeggiata nei dintorni di casa

 

 

 

Seattle, gentile e disperata

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Seattle, gentile e disperata

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Seattle, quartiere Fremont, novembre 2017 (Foto di Silvia Dacomo)

Non ero mai stata in America d’autunno, e dopo questo viaggio posso dire di esserci stata in tutte le stagioni. Per la verità, questa volta con i tanti chilometri percorsi le stagioni più diverse ci correvano incontro a grande, grandissima velocità. Dal gelo dell’Idaho al tepore californiano, dalla nebbia della costa dell’Oregon attraversata da una luce ambrata, all’alba sul Bryce Canyon blindata da un freddo impossibile. A Seattle era, invece,  proprio autunno. Un autunno però che io non avevo mai visto, con i colori delle foglie d’acero che rivestivano tutto, strade, auto, parchi rendendo – un po’ come riesce a fare le neve – tutto sospeso, però in una gioia cromatica sconosciuta alle nostre latitudini.

Seattle è davvero come abbiamo sempre letto ed ascoltato una città evoluta, pulsante, giovane, tecnologica, open-minded, fortemente anti-Trump, molto attenta all’ambiente, che tutela le minoranze e nella camera dell’albergo puoi trovare un cartello che segnala che in conformità a una disposizione municipale c’è il bottone antipanico, per difendere il personale dal sexual harassment, cioè dalle molestie sessuali.

Seattle è davvero un incanto architettonico e naturale. La sua biblioteca riflette la vitalità del centro e il calore che l’autunno le dona. E poi altri quartieri periferici. Che raggiungi comodamente con gli autobus pubblici, dove sale a bordo tutta l’umanità, noti gli hypster granosi che sfoggiano cultura alternativa e i senzatetto, e in mezzo c’è tutto il resto. L’educazione nei confronti di chi condivide lo spazio pubblico, in generale, non sembra però essere solo appannaggio delle classi istruite. Non so come spiegarvi, è una condizione che noti, che annoti per quando ne vorrai scrivere. Sono gesti, sorrisi, smania di raccontarti qualcosa. Fiducia. Trovi cartelli appesi che ribadiscono la volontà di accogliere senza discriminazione, un po’ aiuta a vendere diciamo la verità, ma nella maggior parte dei casi è una convinzione nobile, ne sono sicura.

Seattle ha un interessante quartiere svedese, Ballard, un po’ autentico e un po’ ripulito. Naturalmente, considerato il mio amore per il mare e i porti, ho fatto anche un giro al cantiere di rimessa delle imbarcazioni ma gli operai ci hanno sloggiati dicendo che se ci succedeva qualcosa bla bla bla non erano assicurati e che l’area non era accessibile agli esterni. Abbiamo raggiunto così il canale Chittenden Locks, e anziché proseguire lungo la strada abbiamo camminato tra i binari di una vecchia linea ferroviaria dismessa, regno incontrastato degli operai dell’area in pausa pranzo e del mondo reale. Lungo il canale, come nel Regno Unito, ho assistito al passaggio delle barche, interessante anche qui. Seduto su una panchina (lo vedete in una delle foto in basso), c’era un tizio, che si godeva lo spettacolo. Il suo cappello era tutto una dichiarazione di intenti, il suo berretto era un muro di lana in miniatura con tanti manifesti antagonisti. Era la sua narrativa, forse la sua conseguenza. Di fronte a lui gli  ingegneri della manutenzione manovravano le chiuse dirigendo il traffico e chiacchierando, e dalla sponda opposta una coppia di amici se la rideva, sembrava davvero uscita da un film dei Cohen (posso dirlo con certezza avendo avuto poi modo di ascoltarli).

Seattle è verde. Ecologica, ma proprio anche verdeggiante. Le colline di Fremont, e poi il parco lungo la baia. Il parco è un posto sereno dove fare belle camminate, osservare i cani, scambiare due parole con la gente e prendere il sole (il tempo è stato incredibilmente caldo per l’attitudine meteorologica di questa città).

Dentro tutto questo, dentro tutto questo tentativo amabile, artistico, politicamente corretto e meraviglioso c’è anche molto altro. La piaga, la tristezza, il fondo del pozzo. Pensate alla icona classica dei dannati. Si grattano la pelle fino a portarsi via i pezzi, è il rush, è qui. Si chiama meta-anfetamina e corre nelle vene superficiali e profonde della città. Non ho mai, dico mai, neppure a New York in anni ben più sospetti, visto come qui e a San Diego (altra situazione molto pesante) in California, questa realtà. Ma qui, rispetto a San Diego, mi ha colpito di più. La maggior parte di queste povere vite ha il cervello liquefatto. Bianchi, neri, uomini, donne, vecchi e giovani, ma soprattutto gente di mezza età. Non sono sedati, affatto, anzi sono attivissimi, scoordinatissimi, hanno allucinazioni continue, urlano ferocemente e vivono di spazzatura e stupefacenti. A loro, molti dei quali senza tetto e veterani di guerra (anche qui maglie, berretti, spillette ad indicarlo), si mescolano quei senza tetto che in termini tossicologici sono “puliti”. Ogni cento metri durante la giornata vedi camminare una persona con disagi psichiatrici. Dipende dai periodi, dicono, dalle ondate. Non saprei. Non sono la maggioranza, è ovvio. È una realtà che mi è parsa totalmente fuori controllo, per la quale, leggevo, non c’è quasi percorso di recupero che tenga, è già una battaglia persa a differenza di quelle contro altre sostanze. La sera, già subito dopo cena, la città si svuota pesantemente e sulla Third Avenue non ci entri proprio. Parlano molto, in piedi, con personaggi immaginari, che non vedi, non fotografi, di cui non sentirai mai la voce. Sono gli interlocutori invisibili della disperazione.

Sugli autobus si siedono accanto a te, alcuni non vivono ancora per strada e forse non ci vivranno mai perché hanno qualcuno che si occupa di loro. Per quel che ho avuto modo di vedere, gli autisti sono tipi in gamba, sanno come gestire tutte le situazioni, senza violenza o prevaricazione ma con totale fermezza e grandissima umanità. Seattle, città bellissima, gentile e a tratti disperata. Dove il wi-fi funziona sempre, a bordo dei bus e ovunque. Altre connessioni però evidentemente sono più problematiche.

In una delle zone della città che si svuotano per prime, ci viene incontro con fare molto alterato il tipo che nella foto, qui in basso, attraversa la strada. Avrà meno di quarant’anni, ha i denti a macchie marroni consumati dal crack. I suoi occhi raccontano già, sono occhi inquisitivi e arrendevoli al tempo stesso. Odora forte, di orina e di merda. Ci chiede “qualcosa, qualcosa?”, gli diamo due dollari. “Da dove arrivate?”, “Italia”, “A me piacerebbe tantissimo poter andare in Italia, e sapete perché? Per poter tornare e dire agli altri qui di essere stato al sole, bello sdraiato in un BEL posto, capito? Solo per questo vorrei andare in Italia, per poter dire agli altri di essere stato in un BEL posto”. Lo ripete ancora, per la terza volta.  Poi ci sorride e ci ringrazia più volte,  la mia tensione cala.  Attraversa la strada. Seattle è una città gentile e disperata.

(Dedico questo post a Michele, uno fra i miei più cari e vecchi amici)

 

Il banco vince sempre

Il banco vince sempre

 

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Foto di Luca Vittonetto

Da quell’angolazione, dietro quel vetro, riusciva a fare una considerazione a metà. Ma era bloccato lì, non si poteva muovere. Cercava di spostarsi ma qualcosa, una forza magnetica lo tratteneva ben saldo in quel punto. Il rinfresco doveva ancora incominciare. Quei tavoli non sarebbero stati fuori luogo in un casinò, e nemmeno a farlo apposta due tizi chiacchieravano sprezzanti, come se il banco vincesse sempre. Le hostess all’ingresso erano come manichini di un diorama, l’una a guardar di sottecchi l’altra con un sorriso stabile ma indefinito.

Da quella vetrata, forse famosa, continuava a curiosare ma proprio non riusciva a comprendere che diavolo stesse per succedere. Forse nulla di significativo. Eppure non riusciva ad allontanarsi. Tutto era inerte, tranne la scala mobile che scorreva vuota. Vide salire un tizio, con la testa fra le nuvole, che dopo un istante oltrepassò il riflesso del vetro che lo copriva. Riconobbe se stesso.  Cercò di raggiungerlo, riuscì finalmente a spostarsi. Il banco vinceva sempre, per questo era valsa la pena di andarsene prima che iniziasse qualunque cosa. E si svegliò.

Campeggio libero

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  Campeggio libero

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Foto di Bruno Cicciarello

Quei cieli larghi si ammantano spesso di nuvole veloci, dai contorni poco delineati che scoloriscono il blu. La vecchia casa su due ruote restituiva, con quella luce, un particolare colore all’abbandono, e muoveva una fantasia in quella vastità in cui sembrava, di colpo, atterrata un’epoca. Saranno stati viaggi e poi permanenze definitive. Saranno state scelte.

Nel vento vibravano suoni metallici, ma anche le sterpaglie sussurravano. Nella lontananza alitava ancora tutta la vita che era stata. C’erano stati dei giovani in quella vita. Intorno al fuoco, le loro parole si erano sollevate libere nella notte, come alfabeti sfuggiti finalmente a tutte le gabbie del mondo.

Discussioni meravigliose, che avevano fermato il tempo. E poi risate che raggiungevano il mare. Era una vita lontana che a qualcuno era appartenuta.

Campeggio premio

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Campeggio premio

 

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Mesi addietro, fra i vari concorsi letterari in scadenza, ho scelto di inviare La libreria dei naufraghi a un premio letterario istituito nel territorio del Golfo della Spezia, luogo di mare dall’incantevole entroterra collinare. Ho spedito il tutto con convinzione, ma quasi al limite della scadenza, e poi me ne sono voluta dimenticare. Come un tentare la sorte, e al contempo negare di averla tentata. Del resto, non scommetto quasi mai, non è nella mia attitudine.

Eppure è successo. Ricevo una mail dalla segreteria del premio con l’elenco dei premiati e scopro che non rientro fra i vincitori, ma ho conseguito però il  “Diploma di merito opera finalista”, perché il mio libro è stato inserito per l’appunto nella rosa dei finalisti (e non molti tra l’altro). Incredulità (il mio libro è indie) ed emozione vorticosa: riconoscimento ufficiale per un libro che mi è costato quattro anni di lavoro durissimo, nei fine settimana, la sera. Emozione che sa anche di weekend imprevisto, di limpido weekend di sole, di primo bagno in mare della stagione (l’ultimo è stato a settembre). Poi le Cinque Terre, tanti anni fa. Ritornarci, per un’occasione importante.

Trovo un campeggio che mi ispira molto. Sito web essenziale, rustico, immagini fisse che non si possono ingrandire. Ok. Il marketing aggressivo è un’altra cosa. Venerdì pomeriggio ci mettiamo in viaggio. La struttura è in cima a un colle. Affittiamo una roulotte. Il superbo panorama sulla baia nutre pupille e battito cardiaco. Ma non finisce qui.

Visitiamo i dintorni che negli anni scorsi non avevamo esplorato. Framura, per esempio, non famosa come Manarola o Riomaggiore: spiagge scure di sassi, acqua limpida, quel poco di scomodità che annichilisce il visitatore chiassoso. E infatti è tutto tranquillissimo. E facciamo questa cosa di percorrere a piedi le gallerie – oggi solo pedonali e ciclabili – che un tempo erano state ferroviarie. La storia industriale è riconvertita in un percorso buio, freschissimo con squarci di galleria che si aprono al sole e ti fanno ammirare la scena mediterranea del mare. Raggiungi Bonassola e lì trovi il bagno di folla che Framura ti aveva fortunatamente risparmiato. Superiamo la schiera di ombrelloni e raggiungiamo un sentiero che costeggia il litorale finalmente roccioso. Un po’ di snorkelling, pesci in giusta quantità, persino qualche astroides. Limpidezza.

Domenica andiamo alla cerimonia di premiazione. La giuria legge alcuni brani di racconti, romanzi, poesie e saggi dei vincitori primi classificati. Ascolto con piacere questi testi, alcuni mi colpiscono parecchio, e mi piace l’atmosfera, rilassata. Anche se formale, certo, come si conviene a una cerimonia che coinvolge le istituzioni locali, ma al contempo rasserenante. Non c’è il sopracciglio alzato, cinismo e sarcasmo non si presentano e l’ego si muove con sobrietà. Forse perché respira salsedine e aria di bosco. Mi piace pensarlo.

Percorriamo la strada di ritorno al campeggio, non possiamo fare tardi, partiamo lunedì mattina molto presto. Attraversiamo le colline verdissime della Val di Vara e facciamo ritorno alla roulotte. L’esterno del campeggio è decorato come piace al gestore che lo conduce da trent’anni. No frills, direbbero gli inglesi, e qui di stranieri ce ne sono a iosa. C’è anche tutto quel che serve. E tutto quel ricorda gli anni della gioventù. C’è un vecchio calcetto, c’è una piccola biblioteca, ci sono lanterne appese, l’insegna è una tavola da surf, ci sono i dipinti della moglie del gestore, c’è la genuinità dei piatti preparati sul momento, senza fretta, che sanno di mare e di voglia di fare stare bene i viaggiatori. C’è la chiacchiera spontanea, il sorriso ironico di chi conosce la vita e la passione per il proprio lavoro. Danesi, francesi, inglesi, americani. Solo ottanta posti. Io amo molto il campeggio, la tenda. E nel corso degli anni, ho visto molte strutture cambiare, per necessità, per concorrenza, per fraintendere una buona tradizione con l’immobilismo. E anche questo posto, diventerà, ci ha detto il gestore, un’altra cosa. Forse un villaggio, un residence, che sfrutterà il terreno molto ampio della proprietà, oggi non occupato. Un’altra cosa. Non necessariamente peggiore, i villaggi e i residence possono certo seguire criteri virtuosi, vicini all’ambiente. Ma sarà, comunque, un’altra cosa.

Sarebbe falso dire che le cose più belle della vita mi sono capitate tutte per caso, anche se alcune bellissime, sì, mi sono capitate per caso. Per questo non amo molto gli aforismi-facebook il cui succo è che il caso è portatore indiscusso di bellezza e felicità “quando meno te lo aspetti”. No, dipende dove hai avuto la fortuna di nascere, e da quella “cosetta” nota come responsabilità individuale. Semplificando, mi è sempre piaciuta la sociologia.

Ma anche il campeggio, le sorprese, la natura, la possibilità di scostarsi dall’ombra globale della prevedibilità interessata.

 

Campi di colza e l’inquadratura del futuro

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Campi di colza e l’inquadratura del futuro

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Foto di Massimo Minioto

Grigio e giallo. L’orizzonte non si perde nei campi di colza ma in qualche agglomerato industriale, dove forse la colza finirebbe per trasformarsi in liquido o semiliquido. Olio, biodisel, miele.

Per ora è un tappeto fiorito che incontra fili dell’alta tensione, case, ciminiere.

Dare le spalle al conosciuto, di fronte a un nuovo colore della vita, significa scegliere l’inquadratura del nostro prossimo futuro. Come scattare una fotografia per ricordarci che un orizzonte con cui misurarsi esiste, che il finito può essere bello quanto l’infinito. Scegliere l’inquadratura. Scegliere se farci stare dentro solo fiori gialli, oppure se metterci tutto, la meraviglia e la consuetudine.

Ordinare le priorità dentro uno scatto, la macchina abbassata con l’obiettivo puntato sull’orizzonte, nell’indecisione della realtà che vorresti ottenere, dalla vita e dalla foto. Costruire un significato non è mai stato semplice.

Manovre di passaggio

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Manovre di passaggio

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Lo scorrere dell’acqua nei canali. L’Inghilterra ne è piena, e l’apertura delle chiuse è narrazione di attesa, curiosità, passaggi. Sulla banchina, passanti e viaggiatori sono coinvolti. Sì, coinvolti. Per dare una mano e sentirsi partecipi di quel passaggio; per osservare e giudicare le manovre; per dire la propria e scansare la noia all’uscita dal lavoro.

A volte, due barche passano insieme. E non sono solo due barche che passano, sono spesso due realtà che si affiancano e forse non si sarebbero mai incontrate. Metafore straordinarie della vita, delle opportunità.

La barca con a bordo tutta la famiglia per il weekend, e la barca di chi con la barca ci lavora, trasporta oggetti, che sono rottami ma anche  ruote, piante, contenitori, cavi. E quindi spostamento, ossigeno, spazio, collegamento.

Una barca scura e pulita carica curiosità e distrazione ma anche l’attitudine control-freak del barcaiolo, l’altra confusione e oggetti materiali ed esperienza. Ma in un viaggio bisogna imparare sempre a fidarsi.

Così  mi narrò questa chiusa sul fiume Avon, nella Contea di Somerset.

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Tempo gitano e galantuomo

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Tempo gitano e galantuomo

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Ecco invece, dopo Calatrava, la narrativa per eccellenza della Spagna meridionale. Flamenco. In un locale un po’ fuori mano di Siviglia ma, mi dissero, di quelli giusti.

Non il flamenco per imbambolare il turista, per intenderci. Posto ruvido, affollato, tanta sangria, e quel pubblico attento che non fa sconti agli artisti mediocri.

In quello spazio, di anime e musica autentica, questa ballerina colorava l’aria. Era compresa del ballo, ma anche della sua gioia nel danzare. Forse erano la stessa cosa. Il poster sul muro era quello del Festival Flamenco de la Frontera del 2011 a Morón, di un anno prima. Ma la foto in bianco e nero era stata scattata nel 1967 e immortalava tre musicisti, Joselero de la Frontera (che non si vede), Steve Kahn (chitarrista jazz statunitense) e Diego del Gastor (chitarrista di flamenco).

In quello spazio, che la ballerina tinteggiava con l’azione, tutti quei tempi si sovrapponevano in eco gitane. Millenovecentosessantasette, duemilaundici, duemiladodici, erano tutti lì gli anni e forse i millenni, in un unico istante. E dal tempo del poster arrivava un battito di mani, un incitamento. Alla danza, alla vita, alla musica. Come se nulla possa meritare veramente tristezza. Eccezione fatta per la malinconia, di cui il flamenco si nutre per poi sublimare.

Una foto sfuocata di una serata nitidissima e bellissima. Capitata per caso, grazie a quei musicisti sul palco sconosciuti, ai ballerini sconosciuti. Grazie anche ai suggeritori sconosciuti di luoghi sconosciuti.

Pista d’atterraggio liquida

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Pista d’atterraggio liquida

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Esiste sì un’altra narrativa della Spagna meridionale, che oblia per qualche ora flamenco e azulejos.

E la conosci dentro la Ciudad de las Artes y las Ciencias, dove la maestosa opera di Calatrava e Candela è atterrata sull’acqua che l’accoglie come un’astronave meravigliosa.

Ognuno ha qualche volta le emozioni che si merita, che arricchiscono il già conosciuto di un luogo. A Valencia, mi appassionai parecchio a questo posto che ospita, tra le altre cose, anche il celebre parco oceanografico. Gli specchi d’acqua di migliaia di metri quadri sono la fluida pista d’atterraggio di un sogno, la cui sola visione inchioda il tuo stupore a forme esatte e sorprendenti. Arte così prossima al futuro, che lo ha persino anticipato prima che mai si avverasse.

Il cielo era cupo e caldo di nuvole. Non icona dell’azzurro mediterraneo. E intorno prodigioso chiarissimo smeraldo riflettente.

 

Moonlight, una lezione di nuoto

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Moonlight, una lezione di nuoto

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(Questo mio testo contiene spoiler della trama). Uno spacciatore di crack offre ascolto e riparo esistenziale a un bambino malato di solitudine, emarginato con violenza dai suoi simili, e dai suoi stessi luoghi difficili e disperati. Siamo in una parte della storia di Moonlight. In mare avviene una delle scene più significative, nelle verdi acque della Florida dove l’uomo insegnerà a nuotare al bambino.

In un’intervista sul NYT (24 novembre 2016), il regista Jenkins racconta del bisogno di inserire nel film uno scambio spirituale tra i due personaggi che sono, in quel punto della storia, nel complesso ancora due sconosciuti. Il momento di empatia più forte avviene dunque nell’elemento simbolico per eccellenza: l’acqua. Il regista spiega che la scelta del tipo di inquadratura doveva essere “immersive for the audience”, e direi che l’obiettivo è stato ampiamente raggiunto come ben si addice alla intelligente rappresentazione cinematografica di ogni rito di passaggio.

Il profumo del vento che soffia dall’oceano, ma anche a suo modo l’immersione del volto nel lavandino pieno di acqua gelida, e la contemplazione del mare sono elementi ricorrenti nel film e in qualche modo sono le uniche realtà che rimuovono la violenza che alberga in questa storia sin dall’inizio. Il ragazzo, giusto e pacifico, vorrà uscire vincitore dai soprusi, ma agirà con violenza a sua volta e finirà in carcere. Una volta scontata la pena, sarà una persona totalmente nuova: tutta la sensibilità di cui era capace, la visionarietà silenziosa che lo caratterizzava saranno annientate nella sua corporatura autoritaria di spacciatore, grande, ultra-palestrato, silenzioso e forse molto ricco. Nel suo passato le uniche positività sono state il mare e l’amore verso un coetaneo che ritorna. Moonlight è un film romantico e intimista che racconta di molte impossibilità.

Siamo fuori da Spike Lee sicuramente, ma dentro qualcos’altro di non liricamente scontato. Infatti lo spacciatore “buono” è lo stesso che controlla il quartiere della droga dove la mamma del ragazzino acquista e consuma la sua. Quindi, la poesia di questo film non si piega – a parer mio – alla melensaggine, ma apre invece con coraggio all’indagine dei sentimenti negli abissi delle contraddizioni sociali. La narrativa finale è di una forza dirompente nel ribadire, pur senza rappresentare atrocità, che l’istituzione carceraria autoproduce mostri nuovi, di nuove sembianze. Che posseggono ancora un altrove, da qualche parte nella mente.