Qualcosa di hippy, Bolinas e Nina Simone

Tags: , , , ,

bolinas

Bolinas (California),  video-ricordo

Certe nevrosi armate tengono in ostaggio i pensieri, e la mia allenata razionalità a volte molla. Mi capita così di emigrare volentieri nel ricordo di questo luogo che registrai nel video a bassa qualità che vedete qui. Un minuscolo insediamento sul Pacifico, venti miglia a nord di San Francisco. Ci ho soggiornato molti anni fa. Un’enclave dal candore artistoide che si chiama Bolinas. Ex hippies ed hippies vecchi e nuovi, agricoltori, artisti, ecologisti, surfisti, pescatori vivevano un loro sogno di esistenza e di pensiero in una riservatezza autentica. Gli sporadici visitatori del fine settimana piantavano la tenda sulla spiaggia, leggevano, andavano in canoa, surfavano onde modeste senza quella necessità tutta attuale di avere un pubblico esaltato…

Bolinas ha ben due acque: la laguna a ridosso del villaggio popolata di foche, e la spiaggia sull’oceano. C’era poi questo book exchange, libri usati a offerta libera, la porta sempre aperta. Entravi, prendevi un libro, depositavi i soldi (il prezzo suggerito variava da un dollaro a venti dollari a seconda del valore che tu davi al contenuto del libro – non al suo stato materiale), potevi andartene o restare lì a leggere. Il cosiddetto honor system, lì come altrove funziona. Al piano superiore tute da surf appese a sgocciolare.

La cultura locale trasmetteva salsedine. Nessuno cercava di convincerti della bontà delle proprie scelte, anche perché le vedevi, le leggevi, le ascoltavi le scelte, a volte eccessivamente nostalgiche e naïf, ma sempre appassionate. Nei dipinti sulle case, nei murales, nelle chiacchiere che ti capitava di fare e ascoltare. La sera si mangiava pesce in un vecchio locale con le tavole da surf appese al soffitto, e la musica degli (giuro) Eagles di sottofondo. Turisti zero. Era (e spero lo sia ancora) un posto fuori dal tempo e presto o tardi finirà in uno dei miei prossimi racconti o nel nuovo romanzo che sto scrivendo. Ma se qualcuno avesse la curiosità di sapere a cosa diavolo mi sono vagamente ispirata per il retro della libreria di Kieran McHamilton ne “La libreria dei naufraghi” in questo video lo scoprirà. Mentre ascolta la voce di Nina Simone cantare in sottofondo “Buck” e “Since I Fell for you”.

 

Non ci sono più criteri, signor Zuckerman

Tags: , , , ,

Non ci sono più criteri, signor Zuckerman

roth

Il mio libro delle vacanze natalizie è stato La macchia umana di Philip Roth, autore di cui avevo letto in passato diverse opere. Scrittore intenso e scomodo. Mi sono fatta volentieri imprigionare in questa trama che è un crudele viaggio di sola andata nella landa del conformismo e del “politicamente corretto”, che generano a loro volta (spesso) altro ottuso conformismo che non è – paradossalmente – solo quello del perbenismo di origine conservatrice più retriva ma anche quello dell’antagonismo progressista.

“Non ci sono più criteri, signor Zuckerman, ma semplici opinioni”, così il personaggio di Ernestine nel suo formidabile monologo sintetizza i danni sociali di un’istruzione sempre più semplificata che trascura la storia (a scuola non si leggono più i classici, non si consegna più una copia della Costituzione insieme al diploma, i corsi di recupero al college insegnano tutto quello che gli studenti avrebbero già dovuto imparare alle medie superiori, e così via). Riflessioni e situazioni non solo americane, ma globali e che ci appartengono. Il professor Coleman Silk pagherà alto il prezzo del politically correct, dietro il quale si cela spesso l’incapacità di fronteggiare questioni sostanziali con l’illusione che tutto si possa risolvere a partire dal linguaggio. Proprio lui educato sin da bambino proprio a difendere la ricchezza del linguaggio, a imparare “che le cose avevano delle classificazioni”, a imparare “l’importanza di nominare gli oggetti con precisione”.

Il personaggio di Delphine, carrierista universitaria che userà la logica per sopraffare e poi per nascondersi da un errore madornale, è l’antagonista di Faunia, la trentaquattrenne analfabeta amante del vedovo e anziano Coleman, coltissimo insegnante di greco e latino. Faunia ha un rapporto con la natura esclusivo, liberatorio (un cliché in cui incasellarla è arduo). E infine Les Farley. Reduce del Vietnam, instabile di mente, colto nella sua devastante e crudele tranquillità mentre pesca solitario nel ghiaccio.

Il film (con Anthony Hopkins e Nicole Kidman) tratto dal libro io non l’ho visto. E forse non lo voglio vedere. Non certo per riluttanza snob (ossia: i film-tratti-dai-libri-deludono-inevitabilmente), ma perché la lettura così appassionata di quelle pagine ha proiettato nettamente i personaggi sullo schermo della mia mente, che li comprendo mentre mi spiegano altro della vita e della società. Patirei qualsiasi semplificazione. Come le ho patite del resto nella pur godibile trasposizione cinematografica del libro Pastorale Americana, diretta e interpretata da Ewan McGregor.

La macchia umana è un libro immenso: il drammatico e consapevole rifiuto verso la madre, la ricerca della libertà, Bill Clinton e Monica Lewinsky come metafora della costruzione di un’opinione pubblica infantile, la resa della ragione di una massa che continua a credere in ciò che vuole credere. Lo spirito si accascia sulla consolazione, la logica difende l’interesse e non la verità. Trecentonovanta pagine che raccontano in modo meraviglioso tutto ciò che non si vuole vedere: il peso della storia sociale nella storia individuale, l’invidia che non saprà mai diventare ammirazione, il giudizio della comunità che si attiene allo stereotipo più facile da dimostrare, e una vita interiore che non conosce confini.

L’autunno, il foliage e il responso di Click

Tags: , ,

L’autunno, il foliage e il responso di Click

dsc07006bis

 

Il nostro tempo, dominato dal continuo responso di un click, ha relegato l’attesa a poco più che un fastidio. Eppure, l’autunno è stagione di passaggi graduali. Così ci hanno raccontato le arti e non di meno l’esistenza e la nostra stessa natura biologica. Nuove età dell’amore, malinconiche consuetudini, bilanci, dolcezze del riposo della terra.

Eppure oggi anche l’autunno sale alla ribalta mediatica e si riduce a un evento. Diventa in una parola “foliage”, ossia spettacolarizzazione del massimo punto di intensità del fogliame. Ecco allora ampi panorami arborei in un incendio di tinte sublimi che è già promozione di viaggio. Il luogo diviene meta. E giustamente, perché lo scenario è fantastico! Ma credo che questa rappresentazione dell’autunno tralasci un aspetto fondamentale: il lento mutare.

I mutamenti graduali della natura sono cari a chi la ama profondamente, agli escursionisti, agli anarchici dello spirito. E  naturalmente a chi piace osservare non solo il traguardo ma anche il suo prima e il suo dopo, cioè la storia. Una mia idea di autunno rubata qui, sulle colline torinesi, con qualche dilettante scatto.

 

 

Su Gorropu

Tags: , , ,

Su Gorropu

dsc07212
Lo sappiamo bene. Tutte le sfumature tonali tra il blu e il verde, possibili e fantasticate, il mare della Sardegna le possiede. L’identità dell’isola è fatta di acque marine luminescenti, litorali di spiagge candide, cale minuscole e dune.

Eppure.

Mi è capitato di conoscere altre acque sarde, che riportano a immaginari meno consueti, a spazi riservati e lontani, a risvegli profondi di fronte alla natura. È stato l’incanto di Su Gorropu, nel complesso montuoso del Supramonte (ricordate la canzone di De André?). Una gola, detta anche, per maggiore brillio mediatico, “canyon”. Ma è pur vero che di questo si tratta ed è impressionante. Al termine di un lungo sentiero nella macchia mediterranea, si apre però una valle che conduce al canyon vero e proprio. È una valle minuscola e delicata. Dove la fatica per raggiungerla sotto un sole intransigente si dimentica in un istante.

Una spuma rosa ondeggia sotto il cielo cobalto, sono gli oleandri. Una forza candida s’impone, sono i massi bianchi di roccia calcarea. Bianchi e levigati come confetti. Imponenti e surreali come L’Angelus architettonico di Millet di Salvador Dalí.

Era luglio e il sole era decisamente alto. La valle era deserta. In una giornata così tersa, dopo giorni di meteo indeciso,  le acque del vicino Golfo di Orosei erano così indescrivibili che per gli amanti del mare come me scegliere di fare un’escursione nell’entroterra sembrava assurdo. Eppure. In quella valle del Supramonte, le pozze d’una trasparenza disarmante e meravigliosa erano messe lì per inebriare di frescura. Messe lì per farci un bagno inaspettato e sorprendente.

C’è sempre un luogo che sfugge al canone, e c’è sempre un luogo al quale si giunge senza averne visto prima neppure un’immagine, ma semplicemente avendo seguito un’indicazione stradale, una lettura o un suggerimento. Un luogo in cui tutto diventa evidente. Neppure più luogo, forse solo meraviglioso archetipo.

 

dsc07211

 

 

 

Un uomo a nudo prima di Frankenstein Junior

Tags: , , ,

Un uomo a nudo prima di Frankenstein Junior

 

cambiare2

 

Avete mai visto il film “Un uomo a nudo” ? Un avvenente e inquieto Ned Merrill, interpretato da Burt Lancaster, decide di attraversare a nuoto tutte le piscine dei suoi vicini di casa e amici. Nel corso di questo insolito tragitto natatorio dialogherà con i proprietari delle ville e le conversazioni restituiranno un quadro sconfortante di una società conformista e inconsapevole. Secondo mia madre, con la quale vidi da ragazzina questo film drammatico (titolo originale “The swimmer”), il soggetto era molto originale e a suo modo sviluppato in modo profondo. Originale senz’altro, e contro il perbenismo sociale anche. Soprattutto se si pensa che il tema del nuoto nel cinema hollywoodiano era stato soprattutto un elemento di spettacolarità, pensate alle varie “Bellezze al bagno” con Esther Williams. Erano film certo di superficialità (visti da bambina al mitico cinema Ariston di Torino), ma indimenticabili le magiche figure di sincronizzato cariche di un’atmosfera sognante – e chi lo nega è intellettualmente disonesto.

Mia madre, Luciana, non era un’intellettuale e non era laureata. Amava il buon cinema introspettivo, perché nella sua storia friulana di emigrati c’erano state tante cose da capire e l’aiutò l’amore per i libri, il cinema, la radio (il teatro alla radio, quanto ne ascoltava). Luciana me li ha trasmessi tutti e tre questi amori, lei grande fan di Ingrid Bergman, e continuando con un cognome affezionato e un cambio di due lettere, molto anche di Ingmar Bergman. Un libro che lei faceva girare orgogliosamente per casa era Cambiare di Liv Ullman, moglie del regista svedese e attrice di grande talento. Libro semplice ma nordico anch’esso, con la foto di copertina in bianco e nero che ritraeva il viso della Ullman icona norvegese di malinconica inquietudine.

Quando ero molto giovane, ho conosciuto piacevolmente, grazie a mia madre, molti film scomodi e importanti, e dopo tante visioni (con chiacchierata finale, non chiamiamolo “dibattito”) di pellicole internazionali e meravigliose come “Scene da un matrimonio”, “David e Lisa”, “Un uomo da marciapiede”, “Sinfonia d’autunno”, “Gruppo di famiglia in un interno”, “Ludwig”, “Il maratoneta” sono tuttavia riuscita a sopravvivere al pessimismo cosmico senza perdere del tutto il sorriso grazie al jazz che ascoltava mio padre appena tornava a casa dall’ufficio – lui, Umberto, torinese ma mai mainstream – alla sua devozione, per dirne tre, per “Frankenstein Junior”, “I Blues Brothers”, “A qualcuno piace caldo” (il primo lo vidi con lui e una mia amica quando frequentavo le medie inferiori, e lo vidi piangere dal ridere nella sala che all’epoca si chiamava Corallo, poi Studio Ritz, poi… ha chiuso i battenti). Il senso dell’ironia, a volte un po’ troppo istrionica nella conversazione, lo posseggo fortemente e forse lo devo a lui. Tutte le volte che rivedo Radio Days di Woody Allen, penso all’atmosfera della mia famiglia all’epoca dei miei dodici anni e ci ritrovo sempre alcune affettuose affinità che trascendono le differenze temporali e geografiche. Quelle degli anni più belli e fortunati dei miei genitori. Spontaneità, dialogo, stimoli, divergenze di opinioni e scontri generazionali, chiasso. Silenzio no. Non negli anni più belli. Dove eravamo certamente tutti “sconnessi”, ma mai indifferenti e abitavamo in una vecchia casa in affitto e conoscevamo i nostri vicini per nome.

Echi di David

Tags: , , , , , , ,

Echi di David

EMBOSS_gorge_left

 

Musiche che ti catturano subito. E per “subito” intendo presto nella vita, presto, quando sei molto giovane. Un entusiasmo che ti disorienta, perché non insegue affatto i tuoi gusti musicali primari ma in un attimo li rovescia tutti come birilli in uno strike.

La prima volta che ho ascoltato Echoes avevo sedici anni e fu una folgorazione. Facendo due conti era il 1981, e facendone tre il disco era uscito nove anni prima. I Pink Floyd svettano nel mio parco musicale, che tiene insieme tanti magnifici alberi dalle fronde sonore, nei quali scorre una linfa classica, rock, prog, melodica e cantautoriale, e poi una cotta per David Gilmour e per la sua voce io ce l’ho sempre avuta.

Anche le isole d’Hyères, dove ogni anno da più di venti ci passo almeno un weekend lungo, fanno parte del mio parco di disintossicazione dal mal di vivere planetario. Sull’isola maggiore, Porquerolles, c’è una cala lunga e stretta che si chiama Gorge du Loup. Per chi come me la raggiunge da escursionista, la discesa non è del tutto banale (si scivola), e le sponde rocciose non agevolano certo una permanenza balneare. Che sia stata creata dalla natura per essere vista dall’alto in tutta la sua magnificienza di colori e purezza (con il vento giusto)? O per una rapida nuotata per poi andarsene sapendo che per tutto l’anno te ne ricorderai? Mi piace immaginarlo perché giocare con queste illusioni fantasmagoriche mi ha sempre reso felice. Quel che so per certo è che è un luogo dove nidificano i gabbiani, dove da anni un legno bianchissimo è incastrato tra le rocce, segnaposto surreale nella scogliera fiorita in primavera.

Nel primo tratto della cala, quello che si vede nel video (in fondo alla pagina), ci si balocca nuotando fra colori e trasparenze, si fa qualche tuffo. Poi nuoti per l’intera lunghezza, doppi il piccolo capo sulla sinistra e fai snorkeling luogo la costa rocciosa dietro la cala. Perché dietro la punta, l’acqua sprofonda di trenta metri nel suo color cobalto, stracolma di occhiate e pagelli, e sulle rocce gli anemoni si piegano nel vento liquido fra l’impertubabilità delle stelle marine e la danza delle donzelle pavonine. Ci sono molti archetti rocciosi in cui infilarsi, caprioleggiare.

Ma cosa c’entra tutto questo con Echoes? In una nuova età recente, quella della presunta maturità, l’ho ascoltata nella Gorge du Loup con l’mp3 subaqueo. Qui non c’è l’albatros che volteggia sopra i tuoi occhi mentre nuoti a dorso, ma il gabbiano. Cambiano le simbologie, i riferimenti, ma questo pezzo sembra essere scritto per l’acqua. Dentro l’acqua. Da giovane quando l’ascoltavo mi estraniavo come se fosse un brano di musica classica, e lì compresi la salutare potenza della musica psichedelica. Oggi so per certo che quel suono appartiene a questa cala favolosa e a tutte le creature che la abitano.

 

un’idea della Gorge du Loup: MOV01451

 

 

La vuoi una Fisherman’s?

Tags: , , ,

 

La vuoi una Fisherman’s?

fisherman2

Mi dice che non si ricorda quando ha avuto inizio quella devozione. Io penso in Inghilterra (mi piace pensarlo) dove lei, bella bella, se n’era andata per qualche settimana in un soggiorno-studio presso una famiglia. I suoi racconti, durante il nostro primo anno di ginnasio, restituivano realtà a quella fantasia tutta iconografica di United Kingdom che ben avevo coltivato alle medie inferiori, complici la mia venerazione per i Beatles, alcuni telefilm indimenticabili, le foto di mio fratello, ben più grande di me, scattate nei numerosi viaggi lassù e in una Londra che oggi si fatica a pensare  sia mai esistita. Lontano e icastico il Regno Unito anche nei souvenir di allora, ovvero nelle latte colorate del celebre tè inglese che oggi si produce in Polonia, nei severi e robusti kilt intessuti nelle remote isole scozzesi, e nelle collane realizzate con cuoio e cilindretti di ceramica dipinta. Li conservo ancora.

Da che conosco questa cara amica – ormai sono trentasette anni (scrivere le cifre del tempo per esteso ha un suo brivido) – quel rito è una certezza. All’epoca poteva avvenire al cinema, durante una passeggiata per la città, dopo i pranzi fuori porta con i nostri amici e con i nostri fidanzati di allora. Lei apriva e apre la borsa, dove di solito c’era e c’è un intero kit – ma sparpagliato – per ogni evenienza (dal cerotto alle gocce per i suoi bruschi cali di pressione, dalla biro che funziona in qualsiasi catastrofe, al biglietto extra del bus, al burro di cacao), ed estraeva ed estrae un sacchettino di carta appiattito con il disegno di un peschereccio.

E poi la frase, nel suo tono fermo e cortese, mentre decapita sillabe nella sua parlata veloce: “La vuoi una Fisherman’s?” Debbo dire, in tutta onestà, che non amo molto né l’anice e neppure la liquirizia, e forse queste pastiglie non mi sono mai piaciute veramente, infatti penso di non averle mai comperate. Ma le accettavo (e accetto) ogni tanto, come accade nei piccoli riti delle grande amicizie. Sì, la caramella del pescatore in fondo era bizzarra con quella sua origine negli ostili marosi del Nord, creata come conforto al mal di mare nella pesca d’altura. Effettivamente, era davvero un sapore risoluto che rimandava a terre senza sole e acque furenti. L’immaginario dell’isola britannica non mollava, questa volta grazie a un aroma che cancellava davvero tutti gli altri.

Capitano che hai negli occhi il tuo nobile destino

Tags: , , ,

 

Capitano che hai negli occhi il tuo nobile destino

 

Happy woman sitting on boat and looking through binoculars.

 

Natanti, spesso in euforica velocità, ogni anno tranciano la vita di chi sott’acqua è intento a osservare la vita marina, lontano dal mondo più conosciuto. Accade così di fare qualche apnea (anche molte) durante lo snorkeling, riemergere e venire falcidiati da moto d’acqua, motoscafi o gommoni.

Nascondersi sott’acqua fra anfratti rocciosi, così come sparire per un po’ nel bagliore del tramonto nuotando al largo richiede di munirsi della boa segna sub. La si lega al piede, come una condanna gentile, le si dà corda fino a far distare la boa almeno cinquanta metri dal proprio corpo. In questo modo chi governa – o dovrebbe saper governare – una barca o moto d’acqua che sia sa di doversi tenere a una distanza di almeno cento metri.

Tuttavia, l’attenzione o l’ascolto per una disposizione che tutela le parti interessate (per esempio chi governa un natante e chi pratica attività subacquea) vengono sovente recepiti nel loro complesso come totalmente ininfluenti, dando luogo a incidenti devastanti.

Eppure l’attenzione non è merce di scambio, mentre la faciloneria è una delle piaghe del nostro tempo. È il gioco oggi forse più praticato, in molti campi, quello della contaminazione dei ruoli nell’illusione di poter sperimentare tutto. Con facilità estrema, senza istruzione, senza regole, senza impegno.

Una barca a noleggio con una potenza modesta di 40 hp non necessita di patente nautica. Eppure dà l’illusione al conducente di dominare una strada fluida. Chi nuota sott’acqua o fa alcune apnee spesso invece vuole essere invisibile “a suo rischio e pericolo”, forse anche perché non gli interessano molto i capelli al vento.

Il primo si convince che nella pratica non è davvero tenuto a vedere alcun pallone galleggiare e poi al crepuscolo o con il sole di mezzodì la visuale è obiettivamente ostica. Risultato: “Che il nuotatore abbia la boa o non ce l’abbia… tanto se lo devo beccare lo becco lo stesso”. Questo sembra il ragionamento.

Ma, a scanso di equivoci, anche il nuotatore-snorkeler che non usa il galleggiante è vittima della stessa faciloneria. Perché si sente al sicuro, separato nel suo silenzio elitario che l’acqua gli dona. L’apnea, il nuoto sono un anestetico al chiasso, in una quiete fatta di bracciate accompagnate solo dalle sonorità del proprio respiro. Risultato: “Che barche e gommoni se ne vadano pure in giro a stipare e inquinare baie. Io resto qui vicino a questi scogli, libero pesce tra i pesci”. Questo sembra il ragionamento.

Purtroppo, non funziona così la libertà. E questi incidenti accadono di continuo. Forse perché non tutti i capitani hanno “negli occhi un nobile destino”, come cantava Lucio Dalla in Itaca,  o forse perché tutto deve essere solo a misura di un ego smisurato, smisurato come la superficie o la profondità del mare e dell’esistenza che si presume di conoscere.

L’altrove in una capriola

Tags: , , ,

 

L’altrove in una capriola

Swimming Pool, Schwimmerin, Anschlag im Ziel

 

Nel post “La chimica della gioia” vi avevo raccontato della speciale condizione immaginifica che sperimenta chi nuota con passione. Ma, da una decina di anni, è anche possibile accompagnare bracciate, apnee, vasche e snorkeling alla musica usando un lettore mp3 impermeabile su cui caricare le colonne sonore della propria vita. Banalmente pubblicizzato come ausilio per rompere la monotonia dell’allenamento in piscina, di fatto questo dispositivo arricchisce a suo modo anche l’estetica del legame tra acqua e musica.

Diciamola tutta, al mare, raramente capita di vedere qualcuno che nuota ascoltando musica. In generale chi ama nuotare se ne va al largo, cercando in solitudine la sua strada fluida. La sua strada immaginaria, dal solco lieve ed effimero. Tracciata subito prima o, a proprio rischio, dopo le boe che regolamentano quei trecento metri da riva vietati alle barche a motore.

Il lettore mp3 acquatico lo posseggo da una decina d’anni, un regalo. Lo uso spesso in piscina senza avvalermi di alcuna manualistica che propini generi musicali per regolare il tono dell’umore, o per migliorare l’allenamento. No. Decido solo io. Perché siamo io, l’acqua e il suono ad incontrarci per liberare la mente. Liberarla dall’assedio lavorativo di centinaia di dati, di centinaia di metri di parole che scorrono sul computer, dai calendari passati, dai doveri, da ogni tedio. Non ho quindi mai preparato una compilation “tecnica”. Cerco altro. Ascolto suoni a me cari, o perché regalano in velocità potenti guizzi di esuberanza, o perché generano catarsi, sì: esiste una gioia dirompente anche nell’ascolto della malinconia.

Capriole musicali. Questo diventano le virate che si compiono toccando la parete per poi riprendere la nuotata da un capo all’altro della piscina. La parete è un limite, fa parte del conteggio, ma quella capriola in musica lo sublima. Capriole meravigliose con la musica che amo. Capriole con entrambi gli Arabesque di Debussy, che sono spruzzi di note d’acqua, capriole di astrazione pura con le suite di Bach. E capriole con i suoni di autori che di esplorazioni interiori ben se ne sono intesi: Alan Parson Project, Pink Floyd, George Harrison, David Gilmour, Genesis. Capriole di parole con Paolo Conte, Joan Baez, Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini. Capriole spensierate mentre Ella Fitzgerald sghignazza con Count Basie sul palco di Montreaux in un concerto indimenticabile. Grandi nomi qui, per rendere l’idea, ma sono davvero tante le voci e le band che accompagnano le mie vasche. Spesso poco note eppure sorprendenti.

Anche in scenari mediterranei ho sperimentato capriole musicali da autentico nirvana marino, nello snorkeling fra anfratti rocciosi e archi naturali. Brani storici del sound psichedelico con cui vivere un’esperienza formidabile, in un altrove smisurato dentro e fuori di me. E di questo, a breve, in uno dei prossimi post!

La palpebra e Daniel Blake

Tags: , , , ,

 

La palpebra e Daniel Blake

DSC04947


Newcastle, nella contea inglese di Tyne and Wear confinante con il desolato e magnifico territorio del Northumberland, è una città che lavora sodo e poi si diverte ostentatamente.

Lungo il fiume Tyne si susseguono i segni architettonici della rivoluzione industriale che la vide protagonista. E luccica quel bruco d’argento, la sala da concerto disegnata da Norman Foster, dalle cui vetrate curve scegli l’inquadratura urbana che preferisci e che meglio ricorderai.

La città, bellissima nelle contrastanti sovrapposizioni storico-urbanistiche, al tramonto del venerdì rivela una repentina mutazione antropologica. Diventa una scena indiscussa dell’Io. Competizione estetica di lame di sguardi e corpi marmorei. Lusso negli abiti, vistosità di acconciature, stoffe costose. Non importa se ci sono dieci gradi, non deve esistere altro che la seta che indossi. Euforia nei torrenti alcolici che scorrono davanti ai pub, alle discoteche piazzate dove non ti aspetteresti e custodite da buttafuori giganteschi. La malinconica attitudine vittoriana degli edifici è assediata da una sorta di “Grande Bellezza” sorrentiniana.

In una dorata domenica di autunno, faccio colazione in un dehors sul lungofiume e mi lascio sorprendere dalla grazia naïf che solo i nordici riescono a esprimere ogni volta che il sole sembra proprio non voler andarsene. Beatitudine sui volti, traduzione di “ma allora oggi il bel tempo fa proprio sul serio!”. Centinaia di persone passeggiano sul lungofiume nutrendosi di luce. Il fiume e il Sage Gateshead scintillano. Ecco una spiaggia artificiale con sdraio libere, scatto una foto a una coppia che chiacchiera e ride. Mi ricordano mio padre e mia madre tanto tempo fa. Rilassati e consapevoli dei loro momenti felici.

Brevi e coraggiose zipline dal BALTIC (l’ex granaio costruito negli anni Trenta e ora prestigiosa galleria d’arte) che terminano in applausi e grida gioiose verso chi attraversa il Tyne volando con il caschetto protettivo ben calato sulla zucca. Sullo sfondo i ponti storici e il Millenium Bridge, una meraviglia ingegneristica che si solleva al transito delle barche. L’opera evoca il movimento di una palpebra (per questo motivo il ponte è noto come “Blinking Bridge”).

Ieri sera, scorrevo al computer le foto ricordo scattate l’autunno scorso. Rivedevo parti antiche della città, ma anche l’occhiolino strizzato dalla palpebra del ponte più recente, il via vai nei bar, il jogging, la maratona di beneficienza. Alcuni video mi riportano ai Dire Straits, quel mattino sparati a tutto volume davanti all’auditorium. Tutto era energia, vibrante senso di libertà, perché l’oblio della fatica deve poter essere senz’altro così.

Ma, c’è sempre un “ma”, purtroppo o per fortuna. Il vecchio mondo industriale è stato molto imperfetto. Ma almeno coraggioso se comparato a certo (non tutto, no) attuale terziario pieno di ignavia e burocrazia. E allora penso a I, Daniel Blake, l’ultimo film di Ken Loach che ha vinto la Palma d’Oro a Cannes pochi giorni or sono. Non so se mi piacerà (non tutti i film di Loach mi sono piaciuti, ma alcuni sì, moltissimo). La storia è ambientata proprio a Newcastle e racconta qualcosa di importante e scomodo, qualcosa che la cosiddetta “gentrification”, strizzando l’occhio alla barca che passa e al flâneur curioso e incantato, sa senza dubbio molto ben celare.