Donzelle e merletti

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Donzelle e merletti

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È davvero una gioia vederla! Cangiante, veloce e flessuosa, la ‘donzella pavonina’ colora come un nastro festoso le acque del Mediterraneo e dell’Atlantico orientale dal Portogallo all’Africa. La incontro spessissimo facendo snorkelling lungo le scogliere del mare nostrum, mentre si pavoneggia tra rocce riflessate di sole ricoperte di alghe e molluschi. Latino e greco nel suo nome scientifico (Thalassamo pavo) la definiscono per i colori sorprendenti, tutti i blu delicati del mare e le tinte chiassose del pavone, incertezza tra narcisismo e sobrietà. Il Mediterraneo è pieno di piccole creature così, che animano l’acqua come coriandoli appassionati. Li intravedi qui e là, minute sorprese.

Un altro amico ben noto, di tutt’altra attitudine, è il cosiddetto ‘peperoncino rosso’ il cui nome scientifico (Trypterigion tripteronotus) evidenzia le tre pinne dorsali. Eccentrico in quel suo ricordare un merletto, lo vedo spesso stazionare lungo grotte e tane rocciose. Ama buio e riservatezza.

Due popolari abitanti del nostro mare. Di certo non si tratta di avvistamenti insoliti da trofei fotografici, ma di questo poco importa a chi il mare lo ama nella sua totalità e non cerca guinness.

 

Costa de la Luz

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Costa de la Luz

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L’Andalusia è lo scenario di un capitolo cruciale de “La libreria dei naufraghi”. Scegliere il luogo più torrido d’Europa è stato come voler “asciugare” l’anima nordica del romanzo e dare una luce abbagliante e differente alla storia che ho scritto. Una terra magnifica, di città dalla vitalità costante e nobile mestizia, e parchi, alcuni di alture aride e nude di vento che al crepuscolo si tingono di viola. L’entroterra è solitudine punteggiata di sporadiche case, con tratti che ricordano parecchio la California. E affacciate dal cielo eccezionalmente limpido migliaia di stelle. Il magnifico parco di Cabo de Gata, brullo e severo con il litorale lambito da acque azzurrognole, trasparenti quanto insidiose, ha un concorrente, la Costa de la Luz, con spiagge estese e acque d’Atlantico inquiete. Diversi anni fa alloggiai in una sorta di bungalow molto semplice nella sua estrosità, pressoché sulla spiaggia, tra Zahora e il faro di Trafalgar. Manco a dirlo, aperto tutto l’anno. Surfisti, diver, informalità. Assoluta indipendenza, pochissima gente. Solitudine esotica fra interminabili camminate sulla spiaggia e bagni e nuoto fra onde importanti. Al tramonto si cenava a un tavolo sulla sabbia, fra generosi piatti di pesce e palmizi – come canta Paolo Conte “davanti a un mare venerato”. Sì, venerato, forse non per i suoi colori, di certo tenui,  ma per l’atmosfera autentica, lieta e piacevolmente dimessa che lo definiva. Musica suadente a basso volume, mentre sulla spiaggia qualcuno raccoglieva molluschi a riva. La sera scendeva dolcissima, rossa, estrema. L’estate sapeva soltanto di vento e di gratitudine.

Andalusia

 

Mono Lake

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Mono Lake

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Un mio lontano settembre. Mono Lake. California. Un lago salato, incastonato nella Sierra Nevada quasi al confine con lo stato omonimo. Le sponde ammantate dei gialli cespugli del “sagebrush” (Artemisia tridentata). Dolcissimo il loro profumo, e soave, blandiva la ruvida solitudine del luogo. Ruvida, nelle formazioni di lava solidificata dalle forme immaginifiche che fanno cercare somiglianze con tutte le cose conosciute. Ruvida, nell’acqua messa lì a riflettere e cancellare nel suo continuo incresparsi. E a far riflettere, con magnifica esattezza. Ruvida, nella storia dei nativi americani che diedero il nome al luogo. Panorama di bagliori liquidi.

Una lunga escursione, sotto il sole severo. Ti guardi intorno nel Mono Lake. E vedi il silenzio. Lo vedi. È dolcissimo, proprio come il profumo dei cespugli. Non tutti i luoghi naturali smisurati e insoliti emozionano così, ma per via di una vaga claustrofobia li apprezzo forse comunque. Però, qui, c’era ben altro. Sapere che in epoche lontane, forse antichissime, la Terra aveva avuto un silenzio definito. Fragrante di ambrosia.

 

La chimica della gioia

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La chimica della gioia

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Il nuoto è, per chi lo pratica con passione, una speciale condizione umana, una dipendenza, una chimica della gioia. Che cosa accade a noi nuotatori appassionati dopo numerose vasche? Massicce quantità di beta–endorfine liberate nel cervello abbracciano strette i recettori sparsi in vari punti del sistema nervoso. L’effetto è possente, dura un paio d’ore. Un processo stupefacente, nel vero senso della parola, che dà dipendenza. Lo sanno benissimo tutti i nuotatori. Felicità per me, ogni volta, raccontarlo.

Nuoto con regolarità da più di trentacinque anni e, come ho scritto altrove, non riesco a smettere. Devi amare l’acqua se ami il nuoto. Ovvietà. Ma se amerai il nuoto, imparerai presto a conoscere che cosa è veramente quell’acqua che nutre il fiume della tua città, che muove il mare e scatena torrenti e cascate. Imparerai ad apprezzare, incredibilmente, la natura artificiale della fresca acqua clorata di una piscina, anche d’inverno. E d’estate  riconoscerai l’instabile carattere del mare. Affronterai le sue improvvise variazioni di umore, come l’intreccio di correnti tiepide e freddissime sotto il tuo corpo che potranno, complice un vento improvviso, rendere faticoso il ritorno alla caletta, alla spiaggia o al gommone, mettendo a prova fiato, forza e volontà. In una parola tutta la tua linfa vitale. Che ritroverai sdraiandoti al sole e inebriandoti di luce o bevendo caffè caldo al riparo a nuotata conclusa. In una giornata di mare mosso, imparerai a tuffarti dentro le onde più alte appena si formano, sotto le creste non ancora spumose, e per quasi due ore dimenticherai di avere più di cinquant’anni. Urlerai di gioia e scherzerai con la vita come quando eri adolescente, anzi meglio di allora, perché il tempo oggi è forse davvero più tuo e ne conosci tutta la preziosità.

Esiste da sempre nella storia dell’umanità il bisogno di sentirsi altrove, passando per vari sentieri fisico–mentali. Meditativi, contemplativi, adrenalinici. Gettare la zavorra dei pensieri più pesanti e distruttivi, procedere per sottrazione del superfluo e dell’inquinante l’umore, rifugiandosi nell’astrazione, fuggendo da tutti i bisogni reali e indotti che sembrano indispensabili, per scoprire che siamo nati nudi. Ecco, quando nuoto è come se il mio corpo oltrepassasse ad una ad una tutte le barriere ingrate del tempo. Ogni guizzo è sempre di colore chiaro, la bracciata solleva solo trasparenze e mi sento tutt’una con la grazia fluttuante e fantasiosa del movimento che non pesa. Cinquanta, sessanta vasche continue da venticinque metri e mi trasformo in puro movimento mentre la mente si svuota. Le bolle si rincorrono verso l’alto e il suono subacqueo di me che respiro agisce come un mantra liquido. I pensieri si semplificano, le idee affiorano, le distanze dalla bellezza si accorciano. E poi a ogni vasca compiuta la virata, toccare la parete e capovolgersi con una capriola. L’armonia, l’equilibrio, che oggi chiamiamo con una volgare riduzione benessere e lo misuriamo in calorie, sono le mie mete natatorie.

Il mare in copertina

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Il mare in copertina

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Neil Young, On The Beach (1974)

All’epoca del vinile, il trentatré giri aveva, nello scaffale, la stessa dignità del libro. Di carta, senza contenitore rigido, ad esclusione dei cofanetti. Quella sagoma quadrata aveva la fortuna di essere grande abbastanza da essere facilmente memorizzata, e in seguito ben ricordata. Sempre in bella vista, anche quando dallo scaffale migrava per casa da una stanza all’altra. Quando prestavi un LP a un amico gli consegnavi un suono importante e insieme un’immagine che avevi già fatto tua. Il disco lo si ascoltava in compagnia, in casa. Si leggevano i titoli mentre si commentava durante l’ascolto, e tra una chiacchiera e l’altra la copertina girava fra tutti. Il brano era una traccia nascosta nei cerchi concentrici del vinile, solchi del tronco di un albero immaginario, a volte rigati e compromessi per sempre.

L’acqua non è stata, a mio parere, l’immagine preminente nelle copertine dei LP che hanno fatto la storia della musica della mia generazione. La storia delle copertine musicali è interessantissima, fatta com’è di incroci di idee, di contatti fra le persone più diverse per dare forma anche a concetti, fantasie, ideali, attitudini. E con un mercato, certamente, da voler conquistare.

Tra tutte le copertine che ritraggono il mare, questa dell’album On the Beach (1974), di Neil Young, è a mio parere, una delle più intriganti. Probabilmente perché non riesco a scollegarla dalla canzone, che considero nel suo genere un piccolo capolavoro. Il mare californiano di Santa Monica appare anonimo, potrebbe essere davvero qualunque luogo, non fosse per quella Cadillac sepolta. In una scena punteggiata di giallo, l’oceano non sembra suggerire risposte, né consolazioni a chi ci canta dell’asocialità, intesa come limite e non come scelta. Poi la fuga consapevole dalla città verso qualcosa di ineffabile, una necessità a cui non si riesce a dare un nome. E poi quel verso “Now I’m livin’ out here on the beach, but those seagulls are still out of reach” (trad. it.: adesso vivo sulla spiaggia, ma quei gabbiani sembrano ancora irraggiungibili). Ecco, i cliché restano fuori da questa poetica. Proprio come nella copertina che la rappresenta.

 

 

A bordo di Lady Catherine

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A bordo di Lady Catherine

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Isle of Harris, Outer Hebrides (2006)

 

Scheggia insulare del nord Europa, l’arcipelago delle isole Ebridi è un manto d’erba ancorato ad acque scure e trepidanti. Il cielo insegue l’inquietudine del mare ed è smisurato, incostante, si gonfia di luce e subito dopo di buio. Il traghetto Caledonian MacBrayne procedeva su acque color della cenere ed era avvolto dalla nebbia. Una nebbia graffiante, densa di particole ghiacciate che il vento spruzzava impietosamente sulle nostre facce disorientate. Le isole comparvero finalmente all’orizzonte, sagome basse che evocavano terre inesplorate e primordiali. Scure coste rocciose, muschi e licheni, i folletti non potevano essere troppo distanti.

Una volta trovato alloggio sull’isola di Harris, facemmo lunghe escursioni. Alcune spiagge erano lambite da acque sorprendentemente chiare, turchesi, sfumate. Le sabbie, bianche e fini, erano impreziosite dallo smeraldo dell’erba, soffice e umida. In un giorno di bonaccia, decidemmo per un’uscita a bordo di un gozzo di legno. Il nostro ‘capitano’, il signor Hamish Taylor, aveva avuto alle spalle una lunga storia di navigazione, era stato marconista navale e conosceva bene i mari del nord. Aveva lo sguardo entusiasta e una gentilezza che contrastava con l’archetipo del lupo di mare.

I racconti che ci avrebbe regalato sarebbero stati davvero tutti per noi, curiosi di visitare fiordi e conoscere la storia locale. Dopo un paio d’ore di placida navigazione, con un cielo sempre mutevole e a tratti minaccioso, Hamish ancorò la barca in una baia e ci offri del tè e una fetta di torta. Provammo quel piacere tutto nordico del caldo conforto in climi ostili che lui rese ancora più familiare servendoci le tazze su una tovaglia apparecchiata con cura. Parlammo di mare e correnti, ci disse che la cosa più temuta dagli abitanti delle Ebridi Esterne è la violenza del vento. Ci raccontò di come qualche anno prima una bufera aveva travolto una baia e fatto crollare un grande spuntone di roccia. Poi parlammo di foche, di salmoni, di predatori umani e marini e di leggende locali. Lungo il ritorno ci fermammo all’imboccatura di una grotta e Hamish raccolse un’alga con il gancio d’accosto e me la fece assaggiare. La mia prima alga fresca di mare. Non era buona né cattiva, ma era raccolta nella solitudine delle acque più profonde, e questo lo rese uno speciale frutto della parte liquida della Terra.

La nostra uscita si concluse in una baia piena di foche. Questi animali visti da vicino, nel loro habitat, trasmettono una serenità infinita. I loro occhi bui e un po’ desolati sono un invito alla dolcezza del contatto, la loro riservatezza non scontrosa un anelito di grazia in questi mari tristi e ostili.

 

Il comune fraintendimento del pudore

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Il comune fraintendimento del pudore

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Dal film “Il gladiatore”: l’imperatore Commodo decide la sorte del gladiatore Tigris.

Capita che, nel corso di qualche chiacchierata fra amici, il social network più usato del mondo non manchi di essere definito una latrina verbale globale, un pollaio rissoso, una pura evasione senza costrutto. E, a lungo andare, un generatore di emozioni che – come una centrifuga di ultima generazione – produce il suo nettare a buon mercato per l’autostima, fatto di consolazioni a sorsate di “mi piace”.

Attraverso la bacheca si afferma dunque la propria esistenza, l’esserci qui e ora. Ma anche la propria attitudine tragica o ironica con la quale si osserva il mondo. Il livello di dopamina nel cervello pare abbia un buon incremento grazie ai “mi piace” ricevuti in apprezzamento ai post, siano essi non solo opinioni personali specifiche ma anche l’album delle vacanze, una foto celebre, un micetto giocoso, o quella citazione di icone cinematografiche o letterarie sempre così attuali, per non parlare del dolce al cioccolato alla cui preparazione si è dedicato l’intero pomeriggio domenicale, o della incessante trascrizione della propria variazione umorale giornaliera.

Dunque, dimostriamo di esistere, di essere vivi (felici o infelici, malmostosi o frizzi&lazzi, idealisti o rinunciatari, dubitativi o supponenti), con il rischio però che ogni nostra azione – di condivisione, di apprezzamento o non apprezzamento (“mi piace” o nessun commento) – sia oggetto spesso di fantasiose interpretazioni concentrate più sull’intenzionalità che sui contenuti. Perché Facebook, non è quasi mai un diario fra amici, non è un luogo di confronto e discussione, ma è un’arena globale gratuita, dove ci sono spettatori che urlano a più non posso dagli spalti, fiere tenute a lungo digiune che mostrano denti affilati, e gladiatori che aspirano alla gloria del momento.

Uno fra i più autorevoli dizionari della lingua italiana definisce il secondo significato della parola pudore in senso estensivo come “imbarazzo a esibire la propria interiorità”. In un pianeta afflitto da una sempre più pervasiva (e patologica) platealità digitale, provare quell’imbarazzo non deve sempre apparire dunque così detestabile, né tanto meno incomprensibile o privo di fondamento. E forse andrebbe proprio riconsiderato, per restituire alla vita reale la sua autentica potenzialità, cercando di mantenere alto il livello di dopamina anche nell’esistenza non virtuale dove si perde senz’altro più spesso, ma dove la propria interiorità non è panem et circenses e vale di più di un pollice alzato.