Intarsi e didascalie

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Fotografia di Bruno Cicciarello

Un sole svagato, tra nebbia e nuvole di pioggia presto battente, e il tuo braccio visibile dal piano di sotto. Dalla tua voce, coperta dal brusio di tante persone, capisco che usiamo lo stesso alfabeto e viviamo nella stessa città ma quasi nient’altro. Chissà se la tua storia è fatta di intarsi sgangherati, o assomiglia agli intarsi di questi legni, studiati, giustapposti, ordinati, una sorta di zen del legname, come cortecce rielaborate, staccate dal bosco e ricomposte. In poche parole, se è una storia che cerca uno stile. Un titolo.

Il tuo tatuaggio è fatto di segni lontani. Cinese, giapponese, sanscrito? Da qui non si distingue. La maggior parte delle persone di questo emisfero non lo capisce il tuo tatuaggio, resta segno tuo o dello stile, della differenza che vuoi, che cerchi, che mostri ma che forse è  già diventata normalità in eccesso, come quasi tutto. Può essere un nome da gridare allo stadio, o un nome di persona, di personaggio immaginario, di animale. Un’idea, un proposito, un dogma. Vacanza all’henné, o detenzione, il tuo tatuaggio è soprattutto la didascalia di un bicipite allenato da pesi.

E ti scatti un selfie insieme al tuo amore al museo, gridando enfatico che è tutto uno spasso. Sembra che tu segua fino in fondo il tuo stile. Poi il brusio della folla si allontana per un attimo e ascolto la tua telefonata con un amico che ti ha appena chiamato. Gli dici che poco prima hai scattato una foto al cielo che è minaccioso e confuso, che hai provato a usare l’app che distingue le nuvole per conoscere il nome di quella nuvola mai vista, che hai guardato google maps per avere idea di quanto possano essere lontane quelle piccole isole. Dici che va tutto bene e che sei finalmente felice dopo tanto tempo.

Dal piano inferiore fisso il mare e il cielo da burrasca.  Rifletto. Lo stile cerca le sue didascalie, ma la vita è zeppa di errori tipografici e di interpretazione.


 

Copyright © 2018, Silvia Dacomo
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