La vuoi una Fisherman’s?

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La vuoi una Fisherman’s?

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Mi dice che non si ricorda quando ha avuto inizio quella devozione. Io penso in Inghilterra (mi piace pensarlo) dove lei, bella bella, se n’era andata per qualche settimana in un soggiorno-studio presso una famiglia. I suoi racconti, durante il nostro primo anno di ginnasio, restituivano realtà a quella fantasia tutta iconografica di United Kingdom che ben avevo coltivato alle medie inferiori, complici la mia venerazione per i Beatles, alcuni telefilm indimenticabili, le foto di mio fratello, ben più grande di me, scattate nei numerosi viaggi lassù e in una Londra che oggi si fatica a pensare  sia mai esistita. Lontano e icastico il Regno Unito anche nei souvenir di allora, ovvero nelle latte colorate del celebre tè inglese che oggi si produce in Polonia, nei severi e robusti kilt intessuti nelle remote isole scozzesi, e nelle collane realizzate con cuoio e cilindretti di ceramica dipinta. Li conservo ancora.

Da che conosco questa cara amica – ormai sono trentasette anni (scrivere le cifre del tempo per esteso ha un suo brivido) – quel rito è una certezza. All’epoca poteva avvenire al cinema, durante una passeggiata per la città, dopo i pranzi fuori porta con i nostri amici e con i nostri fidanzati di allora. Lei apriva e apre la borsa, dove di solito c’era e c’è un intero kit – ma sparpagliato – per ogni evenienza (dal cerotto alle gocce per i suoi bruschi cali di pressione, dalla biro che funziona in qualsiasi catastrofe, al biglietto extra del bus, al burro di cacao), ed estraeva ed estrae un sacchettino di carta appiattito con il disegno di un peschereccio.

E poi la frase, nel suo tono fermo e cortese, mentre decapita sillabe nella sua parlata veloce: “La vuoi una Fisherman’s?” Debbo dire, in tutta onestà, che non amo molto né l’anice e neppure la liquirizia, e forse queste pastiglie non mi sono mai piaciute veramente, infatti penso di non averle mai comperate. Ma le accettavo (e accetto) ogni tanto, come accade nei piccoli riti delle grande amicizie. Sì, la caramella del pescatore in fondo era bizzarra con quella sua origine negli ostili marosi del Nord, creata come conforto al mal di mare nella pesca d’altura. Effettivamente, era davvero un sapore risoluto che rimandava a terre senza sole e acque furenti. L’immaginario dell’isola britannica non mollava, questa volta grazie a un aroma che cancellava davvero tutti gli altri.

La palpebra e Daniel Blake

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La palpebra e Daniel Blake

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Newcastle, nella contea inglese di Tyne and Wear confinante con il desolato e magnifico territorio del Northumberland, è una città che lavora sodo e poi si diverte ostentatamente.

Lungo il fiume Tyne si susseguono i segni architettonici della rivoluzione industriale che la vide protagonista. E luccica quel bruco d’argento, la sala da concerto disegnata da Norman Foster, dalle cui vetrate curve scegli l’inquadratura urbana che preferisci e che meglio ricorderai.

La città, bellissima nelle contrastanti sovrapposizioni storico-urbanistiche, al tramonto del venerdì rivela una repentina mutazione antropologica. Diventa una scena indiscussa dell’Io. Competizione estetica di lame di sguardi e corpi marmorei. Lusso negli abiti, vistosità di acconciature, stoffe costose. Non importa se ci sono dieci gradi, non deve esistere altro che la seta che indossi. Euforia nei torrenti alcolici che scorrono davanti ai pub, alle discoteche piazzate dove non ti aspetteresti e custodite da buttafuori giganteschi. La malinconica attitudine vittoriana degli edifici è assediata da una sorta di “Grande Bellezza” sorrentiniana.

In una dorata domenica di autunno, faccio colazione in un dehors sul lungofiume e mi lascio sorprendere dalla grazia naïf che solo i nordici riescono a esprimere ogni volta che il sole sembra proprio non voler andarsene. Beatitudine sui volti, traduzione di “ma allora oggi il bel tempo fa proprio sul serio!”. Centinaia di persone passeggiano sul lungofiume nutrendosi di luce. Il fiume e il Sage Gateshead scintillano. Ecco una spiaggia artificiale con sdraio libere, scatto una foto a una coppia che chiacchiera e ride. Mi ricordano mio padre e mia madre tanto tempo fa. Rilassati e consapevoli dei loro momenti felici.

Brevi e coraggiose zipline dal BALTIC (l’ex granaio costruito negli anni Trenta e ora prestigiosa galleria d’arte) che terminano in applausi e grida gioiose verso chi attraversa il Tyne volando con il caschetto protettivo ben calato sulla zucca. Sullo sfondo i ponti storici e il Millenium Bridge, una meraviglia ingegneristica che si solleva al transito delle barche. L’opera evoca il movimento di una palpebra (per questo motivo il ponte è noto come “Blinking Bridge”).

Ieri sera, scorrevo al computer le foto ricordo scattate l’autunno scorso. Rivedevo parti antiche della città, ma anche l’occhiolino strizzato dalla palpebra del ponte più recente, il via vai nei bar, il jogging, la maratona di beneficienza. Alcuni video mi riportano ai Dire Straits, quel mattino sparati a tutto volume davanti all’auditorium. Tutto era energia, vibrante senso di libertà, perché l’oblio della fatica deve poter essere senz’altro così.

Ma, c’è sempre un “ma”, purtroppo o per fortuna. Il vecchio mondo industriale è stato molto imperfetto. Ma almeno coraggioso se comparato a certo (non tutto, no) attuale terziario pieno di ignavia e burocrazia. E allora penso a I, Daniel Blake, l’ultimo film di Ken Loach che ha vinto la Palma d’Oro a Cannes pochi giorni or sono. Non so se mi piacerà (non tutti i film di Loach mi sono piaciuti, ma alcuni sì, moltissimo). La storia è ambientata proprio a Newcastle e racconta qualcosa di importante e scomodo, qualcosa che la cosiddetta “gentrification”, strizzando l’occhio alla barca che passa e al flâneur curioso e incantato, sa senza dubbio molto ben celare.