Un uomo a nudo prima di Frankenstein Junior
Avete mai visto il film “Un uomo a nudo” ? Un avvenente e inquieto Ned Merrill, interpretato da Burt Lancaster, decide di attraversare a nuoto tutte le piscine dei suoi vicini di casa e amici. Nel corso di questo insolito tragitto natatorio dialogherà con i proprietari delle ville e le conversazioni restituiranno un quadro sconfortante di una società conformista e inconsapevole. Secondo mia madre, con la quale vidi da ragazzina questo film drammatico (titolo originale “The swimmer”), il soggetto era molto originale e a suo modo sviluppato in modo profondo. Originale senz’altro, e contro il perbenismo sociale anche. Soprattutto se si pensa che il tema del nuoto nel cinema hollywoodiano era stato soprattutto un elemento di spettacolarità, pensate alle varie “Bellezze al bagno” con Esther Williams. Erano film certo di superficialità (visti da bambina al mitico cinema Ariston di Torino), ma indimenticabili le magiche figure di sincronizzato cariche di un’atmosfera sognante – e chi lo nega è intellettualmente disonesto.
Mia madre, Luciana, non era un’intellettuale e non era laureata. Amava il buon cinema introspettivo, perché nella sua storia friulana di emigrati c’erano state tante cose da capire e l’aiutò l’amore per i libri, il cinema, la radio (il teatro alla radio, quanto ne ascoltava). Luciana me li ha trasmessi tutti e tre questi amori, lei grande fan di Ingrid Bergman, e continuando con un cognome affezionato e un cambio di due lettere, molto anche di Ingmar Bergman. Un libro che lei faceva girare orgogliosamente per casa era Cambiare di Liv Ullman, moglie del regista svedese e attrice di grande talento. Libro semplice ma nordico anch’esso, con la foto di copertina in bianco e nero che ritraeva il viso della Ullman icona norvegese di malinconica inquietudine.
Quando ero molto giovane, ho conosciuto piacevolmente, grazie a mia madre, molti film scomodi e importanti, e dopo tante visioni (con chiacchierata finale, non chiamiamolo “dibattito”) di pellicole internazionali e meravigliose come “Scene da un matrimonio”, “David e Lisa”, “Un uomo da marciapiede”, “Sinfonia d’autunno”, “Gruppo di famiglia in un interno”, “Ludwig”, “Il maratoneta” sono tuttavia riuscita a sopravvivere al pessimismo cosmico senza perdere del tutto il sorriso grazie al jazz che ascoltava mio padre appena tornava a casa dall’ufficio – lui, Umberto, torinese ma mai mainstream – alla sua devozione, per dirne tre, per “Frankenstein Junior”, “I Blues Brothers”, “A qualcuno piace caldo” (il primo lo vidi con lui e una mia amica quando frequentavo le medie inferiori, e lo vidi piangere dal ridere nella sala che all’epoca si chiamava Corallo, poi Studio Ritz, poi… ha chiuso i battenti). Il senso dell’ironia, a volte un po’ troppo istrionica nella conversazione, lo posseggo fortemente e forse lo devo a lui. Tutte le volte che rivedo Radio Days di Woody Allen, penso all’atmosfera della mia famiglia all’epoca dei miei dodici anni e ci ritrovo sempre alcune affettuose affinità che trascendono le differenze temporali e geografiche. Quelle degli anni più belli e fortunati dei miei genitori. Spontaneità, dialogo, stimoli, divergenze di opinioni e scontri generazionali, chiasso. Silenzio no. Non negli anni più belli. Dove eravamo certamente tutti “sconnessi”, ma mai indifferenti e abitavamo in una vecchia casa in affitto e conoscevamo i nostri vicini per nome.