Non ci sono più criteri, signor Zuckerman
Il mio libro delle vacanze natalizie è stato La macchia umana di Philip Roth, autore di cui avevo letto in passato diverse opere. Scrittore intenso e scomodo. Mi sono fatta volentieri imprigionare in questa trama che è un crudele viaggio di sola andata nella landa del conformismo e del “politicamente corretto”, che generano a loro volta (spesso) altro ottuso conformismo che non è – paradossalmente – solo quello del perbenismo di origine conservatrice più retriva ma anche quello dell’antagonismo progressista.
“Non ci sono più criteri, signor Zuckerman, ma semplici opinioni”, così il personaggio di Ernestine nel suo formidabile monologo sintetizza i danni sociali di un’istruzione sempre più semplificata che trascura la storia (a scuola non si leggono più i classici, non si consegna più una copia della Costituzione insieme al diploma, i corsi di recupero al college insegnano tutto quello che gli studenti avrebbero già dovuto imparare alle medie superiori, e così via). Riflessioni e situazioni non solo americane, ma globali e che ci appartengono. Il professor Coleman Silk pagherà alto il prezzo del politically correct, dietro il quale si cela spesso l’incapacità di fronteggiare questioni sostanziali con l’illusione che tutto si possa risolvere a partire dal linguaggio. Proprio lui educato sin da bambino proprio a difendere la ricchezza del linguaggio, a imparare “che le cose avevano delle classificazioni”, a imparare “l’importanza di nominare gli oggetti con precisione”.
Il personaggio di Delphine, carrierista universitaria che userà la logica per sopraffare e poi per nascondersi da un errore madornale, è l’antagonista di Faunia, la trentaquattrenne analfabeta amante del vedovo e anziano Coleman, coltissimo insegnante di greco e latino. Faunia ha un rapporto con la natura esclusivo, liberatorio (un cliché in cui incasellarla è arduo). E infine Les Farley. Reduce del Vietnam, instabile di mente, colto nella sua devastante e crudele tranquillità mentre pesca solitario nel ghiaccio.
Il film (con Anthony Hopkins e Nicole Kidman) tratto dal libro io non l’ho visto. E forse non lo voglio vedere. Non certo per riluttanza snob (ossia: i film-tratti-dai-libri-deludono-inevitabilmente), ma perché la lettura così appassionata di quelle pagine ha proiettato nettamente i personaggi sullo schermo della mia mente, che li comprendo mentre mi spiegano altro della vita e della società. Patirei qualsiasi semplificazione. Come le ho patite del resto nella pur godibile trasposizione cinematografica del libro Pastorale Americana, diretta e interpretata da Ewan McGregor.
La macchia umana è un libro immenso: il drammatico e consapevole rifiuto verso la madre, la ricerca della libertà, Bill Clinton e Monica Lewinsky come metafora della costruzione di un’opinione pubblica infantile, la resa della ragione di una massa che continua a credere in ciò che vuole credere. Lo spirito si accascia sulla consolazione, la logica difende l’interesse e non la verità. Trecentonovanta pagine che raccontano in modo meraviglioso tutto ciò che non si vuole vedere: il peso della storia sociale nella storia individuale, l’invidia che non saprà mai diventare ammirazione, il giudizio della comunità che si attiene allo stereotipo più facile da dimostrare, e una vita interiore che non conosce confini.