Moonlight, una lezione di nuoto
(Questo mio testo contiene spoiler della trama). Uno spacciatore di crack offre ascolto e riparo esistenziale a un bambino malato di solitudine, emarginato con violenza dai suoi simili, e dai suoi stessi luoghi difficili e disperati. Siamo in una parte della storia di Moonlight. In mare avviene una delle scene più significative, nelle verdi acque della Florida dove l’uomo insegnerà a nuotare al bambino.
In un’intervista sul NYT (24 novembre 2016), il regista Jenkins racconta del bisogno di inserire nel film uno scambio spirituale tra i due personaggi che sono, in quel punto della storia, nel complesso ancora due sconosciuti. Il momento di empatia più forte avviene dunque nell’elemento simbolico per eccellenza: l’acqua. Il regista spiega che la scelta del tipo di inquadratura doveva essere “immersive for the audience”, e direi che l’obiettivo è stato ampiamente raggiunto come ben si addice alla intelligente rappresentazione cinematografica di ogni rito di passaggio.
Il profumo del vento che soffia dall’oceano, ma anche a suo modo l’immersione del volto nel lavandino pieno di acqua gelida, e la contemplazione del mare sono elementi ricorrenti nel film e in qualche modo sono le uniche realtà che rimuovono la violenza che alberga in questa storia sin dall’inizio. Il ragazzo, giusto e pacifico, vorrà uscire vincitore dai soprusi, ma agirà con violenza a sua volta e finirà in carcere. Una volta scontata la pena, sarà una persona totalmente nuova: tutta la sensibilità di cui era capace, la visionarietà silenziosa che lo caratterizzava saranno annientate nella sua corporatura autoritaria di spacciatore, grande, ultra-palestrato, silenzioso e forse molto ricco. Nel suo passato le uniche positività sono state il mare e l’amore verso un coetaneo che ritorna. Moonlight è un film romantico e intimista che racconta di molte impossibilità.
Siamo fuori da Spike Lee sicuramente, ma dentro qualcos’altro di non liricamente scontato. Infatti lo spacciatore “buono” è lo stesso che controlla il quartiere della droga dove la mamma del ragazzino acquista e consuma la sua. Quindi, la poesia di questo film non si piega – a parer mio – alla melensaggine, ma apre invece con coraggio all’indagine dei sentimenti negli abissi delle contraddizioni sociali. La narrativa finale è di una forza dirompente nel ribadire, pur senza rappresentare atrocità, che l’istituzione carceraria autoproduce mostri nuovi, di nuove sembianze. Che posseggono ancora un altrove, da qualche parte nella mente.